Via Padova, bar Ligera, Milano.
Luci soffuse, chiacchiere ad alto volume.
Scendere le scale, scendere negli abissi dello shoegaze, la musica di chi fissa le scarpe mentre suona.
Cos’è questo genere di musica di cui pochi parlano, cosa non è? Il “punk degli introversi”, si dice, una concatenazione di riverberi, delay e voci eteree strumentali. È libertà e soffocamento, lotta continua di chi è in disequilibrio tra l’istinto di esternare le proprie emozioni e quello di trattenerle per affezione.
Così, nell’atmosfera calda che si è creata, nella stanza così underground da poterne palpare l’odore Brit, gli Stella Diana prendono il loro posto sul palco e iniziano a incantare il pubblico dall’attacco. Tagliano subito l’aria rarefatta, padroni dei loro suoni volatili e inafferrabili.

A un tratto una voce effimera fluttua in libertà, ricorda un invito sospeso nel vuoto, mai accettato, mai declinato, o una promessa cristallina sussurrata o cantilenata.
Si instaura una sorta di trance ipnotica, dove alle più sublimi visioni celestiali si alternano incubi claustrofobici.
“The floor as you see it’s collapsed and we fall”
Si affonda, piano, piano. Non si può risalire da questo abisso così calmante, così angosciante. Non si può e nemmeno si vuole.
Ogni suono si fa più vicino, lo si può afferrare.
L’anima si sgretola senza tempo, senza controllo.