Il primo disco dei Giardini Di Mirò, Rise and fall of academic drifting, esce nel 2001. In quel periodo sono un ventenne con un discreto taglio di capelli e un pizzetto improponibile sul mento, adoro tutto il catalogo Homesleep e gli arpeggi mi sembrano la cosa più bella dell’universo. Fa molto nonno indie questa cosa, in effetti. Il problema è che quell’anno tutto il resto è davvero brutto. Tra G8 di Genova e Torri Gemelle a New York, ciò che emerge è che non solo un altro mondo è impossibile, ma quello in cui ci ritroviamo ha pure azionato il timer per l’autodistruzione. Per cui oggi fa un certo effetto ascoltare il nuovo album dei Giardini Di Mirò, Different times. Viviamo davvero tempi diversi rispetto a prima? Il caos di oggi fa più o meno paura di quello di ieri? Di sicuro c’è che la band conferma se stessa e la propria grandezza, che è quella di un gruppo che cambia e trova ogni volta un modo diverso di raccontare il proprio percorso musicale, da sempre incardinato negli schemi emotivamente potenti di un post rock cristallino, ma che sa essere anche altro – elettronica, pop, avanguardia pura.
Canzoni convenzionali? Ok, ma neanche troppo
In un certo senso, i Giardini Di Mirò di Different times ritornano un po’ alla base del loro suono. Che è quello di una band che sa scrivere canzoni convenzionali in modo non convenzionale. “Canzoni convenzionali? Sì ok, ma neanche troppo. Diciamo che siamo un gruppo post rock con piglio melodico”, dice Corrado Nuccini a Shoegaze Blog. La dicotomia convenzionale-non convenzionale si riferisce alla capacità di questa band di saper prendere gli schemi classici – strofa, ritornello e quel che ne consegue – e raccontarli in modo diverso. Un percorso che noto in più di un episodio all’interno della tracklist di Different times. L’album, peraltro, è bellissimo, la migliore rappresentazione possibile del suono dei Giardini Di Mirò. Una canzone come Void slip è ciò che deve essere il post rock oggi: una musica da ascoltare in certe serate insonni e sgranate, in cui servono accordi in minore che puntino dritto ai tuoi punti deboli e li difendano a ogni costo. Under è un altro pezzo spaccacuore, con lo scintillìo shoegaze in mezzo a un crescendo indie rock, una dinamica irresistibile che da qualche anno nessuno sembra più in grado di riproporre – e meno male allora che ci pensano i GDM. “Volevamo registrare un disco istintivo, che detta così non vuol dire granché. Infatti ci abbiamo messo due anni per chiuderlo”. Il primo estratto, la canzone che dà il titolo alla raccolta, è sorprendente perché è un brano lungo, d’atmosfera, costruito benissimo intorno a una serie di arpeggi d’altri tempi: è il singolo meno singolo tra quelli in scaletta. “Ci vedi i Giardini di Mirò a fare i singoli? Abbiamo pubblicato il primo pezzo che ci andava di far sentire a chi ci segue”.
Tanti gli ospiti: Robin Proper-Sheppard dei Sophia in Hold on, Glen Johnson dei Piano Magic in Failed to chart, Daniel O’Sullivan in Fieldnotes e Adele Nigro, ovvero Any Other, una delle artiste italiane più brave attualmente in circolazione. Il focus è su di lei, la cui voce si sente nella splendida ninna nanna dream pop Don’t lie: “Adele è un talento con molta strada davanti. Ha partecipato al disco dei Giardini perché avevamo bisogno di backing vocals e lei era in studio in quel periodo per il suo disco, un lavoro che mi piace davvero tanto. Ha molta personalità e prospettive”. A proposito di tempi differenti, quando uscì Rise and fall of academic drifting la scena musicale indipendente italiana era completamente diversa da oggi – anche la parola indie aveva un altro significato – e di fatto molta di quella realtà è scomparsa. Ma i GDM non si sentono dei sopravvissuti.
Affermarsi non è solo diventare coglioni
“Sopravvissuti? No, dai, troppo drammatico, ci siamo anche divertiti ogni tanto. Da qualche anno in Italia funzionano cose commerciali, radiofoniche. I Giardini di Mirò non sono favorevoli né contrari a questa convergenza tra indie e musica di successo. Certo, a noi, figli della cultura alternativa, di cose come radio, singoli, hit, Sanremo e via dicendo non ce n’è mai fregato un cazzo. Sognavamo di prendere un furgone e andare a suonare all’estero, a Berlino e a Parigi: forse, col senno di poi, è anche un pensiero semplice. Tornassi indietro magari ci farei più caso, perché affermarsi non è solo diventare coglioni: dà visibilità e credibilità. Non è poi che i Giardini abbiano l’avversione per il successo: abbiamo, per lo più, pensato ad altro”.

In Italia c’è una crisi di fiducia che riguarda non solo la politica, ma praticamente qualsiasi cosa, inclusa la musica. Quest’ultima, forse spaventata dai tempi che corrono (i tempi differenti), per tutta risposta a volte dà l’impressione di deresponsabilizzarsi. Secondo Nuccini, “un eccesso di deresponsabilizzazione fa danni. Alla lunga può trasformarsi in irresponsabilità e non è un bene. Allo stesso modo però non temo la musica leggera e non voglio giudicare, a quarantatré anni, le canzoni che parlano a una generazione di ventenni. Poi come sempre le stagioni passano, la musica buona resta, la spazzatura no. Io sono cresciuto negli anni Ottanta, la musica e la cultura edonistica erano regola, poi sono arrivati i Nirvana e abbiamo tutti fatto i conti con la nostra inevitabile disperazione“. Che spesso va a braccetto con la tristezza. “Alla domanda –perché scrivi musica triste?– Luigi Tenco rispose –perché quando sono felice esco-. Io però, devo ammettere, non esco quasi mai“.
Premi play: tre dischi consigliati da Corrado Nuccini
Marianne Faithfull, Negative capability. “C’è poco da dire, gran voce, gran disco”.
David Byrne, American utopia. “Un artista incredibile, tra Bowie e i Kraftwerk“.
Jóhann Jóhannsson, Mandy. “Un compositore dotato di una visione sulle cose pazzesca, peccato ci abbia lasciato così presto”.