All’inizio degli anni Duemila, i titoli dei brani erano forse più importanti della musica stessa. Dovevano essere lunghissimi e sarcastici, quasi surreali. Non ho mai capito perché. Giacomo, un ragazzo appassionato di post rock con cui ho suonato in un gruppo che ha avuto vita breve, aveva una sua teoria: “Noi non siamo mica gli U2” e chiudeva lì la faccenda, qualunque cosa volesse significare, con quel suo classico sorrisetto sbilanciato – più gengive che denti, più arroganza che divertimento – che a volte era tutt’altro che rassicurante. Sembra quasi che la tendenza al cinismo si incolli alla perfezione in chi è nato negli anni Ottanta e ha cominciato ad ascoltare seriamente gli U2 con Pop anziché con Zooropa.
Un mucchio di parole
Questa storia dei titoli non mi ha mai convinto fino in fondo. A me sembravano solo una scusa per sviare l’attenzione dal centro della faccenda. Come quando dici un mucchio di parole tarate grossolanamente sul livello della conversazione, soltanto per non svelare a chi ti sta davanti chi sei davvero, per non mostrare mai – nemmeno per un secondo – il tuo cuore scomodo e pieno di sassi irregolari. Quell’umorismo un po’ elitario riusciva – e riesce – bene ai Mogwai e a pochissimi altri (eppure anche loro hanno saputo svelarsi, altroché). In contesti differenti – in band differenti – sembrava invece più una scusa a non andare oltre, un post scriptum stonato in una confessione accorata. Forse dunque è per questo che il momento di gloria del post rock è durato poco, talmente poco che è diventato subito parodia persino tra chi ci credeva davvero. O forse non ci credeva abbastanza. Eppure ancora oggi il post rock – proprio come lo shoegaze – ha tanto da dire e da dare. Anzi, si può affermare che oggi è un genere musicale molto più libero, dinamico e creativo di quanto non fosse un tempo. Chiedi ai maestri.

Gli Epic45 tornano sette anni dopo Weathering con un nuovo ottimo album, Through broken summer. Che poi, nel loro caso la parola post rock non è sufficiente per raccontarne i picchi emotivi: pezzi come Sun memory e Hillside ’86 cominciano dalle parti degli Slowdive più rarefatti e finiscono per diventare esempi perfetti di un dream pop dilatato al massimo. Outside, invece, sembra un omaggio alla scena indietronica dei primi anni Duemila, tra i Notwist e gli Hood. Notevole davvero.
I This Will Destroy You sono usciti con due splendidi dischi nuovi in poco meno di un mese: New others part one e New others part two. In pratica, la band americana raggiunge il massimo storico in termini di impatto, grandeur, complessità. C’è tutto il meglio del post rock: la sua epica triste e necessaria, i suoi crescendo pazzeschi, la costruzione melodica che schianta l’aria. I brani? Sound of your death è l’incendio, Lie down in the light è la tempesta, Cascade è tutto il resto. Ed è bellissimo.