Italogaze: la nostra via di fuga dal cinismo

I Clustersun dal vivo I Clustersun dal vivo

Italogaze. Almeno alle nostre orecchie, le robe all’italiana solitamente rimandano a sottogeneri peggiorativi che mettono sempre un po’ sul chi va là quelli che la sanno lunga: il rock all’italiana, la commedia all’italiana, il catenaccio all’italiana. A tutto questo bisogna aggiungere quel classico atteggiamento italianissimo di disfattismo misto a insolenza, tipico di quei cinici che vivono disinvolti nel loro mondo rovesciato. Insomma, stiamo parlando di coloro che per principio se la ridono di gusto, senza nemmeno sapere che cosa si stanno perdendo. O di che cosa stiamo parlando. Shoegaze all’italiana? Ma per carità.

Italogaze è un termine bellissimo

Perché è un omaggio affettuoso e pieno di rispetto che il mondo shoegaze internazionale ha voluto dare a una scena che è tutta nostra, che è forte e che fa un gran baccano. La prima volta che scoperto questa parola ricordo di aver pensato che è un riconoscimento significativo: italogaze serve a inquadrare un fenomeno con una sua specificità geografica, artistica e culturale. Non è un hard discount con imitazioni e sottomarche, semmai una piccola boutique artigianale: robe realizzate con passione e competenza. Fuori dalla rotta Uk-Usa, dunque, lo shoegaze ha trovato in Italia un suono fresco e un’attitudine indipendente per davvero, che porta a un rinascimento dream pop. A casa nostra.

Ma perché non ne parla Pitchfork?

Questa è una domanda stupida che è stata posta in giro da qualche cinico a corto di curiosità, oltre che di argomenti. Si tende cioè a garantire dignità e considerazione solo a tutto ciò che luccica e che fa parlare. Come avveniva negli anni Ottanta. Ma il valore di una scena non può essere certificato solo in termini di risonanza mediatica. L’underground è, per definizione, materia oscura e sotterranea, con poche luci e molte asprezze. Non è incline al facile dialogo. E la scena shoegaze internazionale, della quale l’italogaze è socio fondatore, è ancora un fenomeno in larga parte alternativo ai giri che contano. Che però sta cominciando a venire fuori con forza, attraverso un network transnazionale fatto di radio, blog, social e festival che è destinato a crescere in futuro. E noi italiani ci siamo dentro fino al collo, come dimostrano i tour all’estero di Be Forest e Rev Rev Rev (questi ultimi recentemente omaggiati nientemeno che da Bandcamp). Dunque, che senso ha perdere l’onda e tutto il divertimento che ne consegue solo perché Pitchfork non ne ha (ancora) parlato? (Anche se comunque negli ultimi mesi la testata americana ha acceso il radar anche dalle parti dello shoegaze, quindi chissà…). In Italia, a parte Rockit e pochi altri (come il sito fratello di questo blog, Shoegazin Your Waves), l’attenzione delle testate specializzate a questa realtà è ancora piuttosto basso. Ma il tempo è dalla nostra. Perché una cosa è certa: questa non è (più) una scena che vuole limitarsi a celebrare se stessa, ma una realtà che aspira a diventare sistema.

Prendiamo questi due esempi

Negli ultimi mesi sono usciti due dischi che in qualche modo rappresentano due diverse interpretazioni di un’appartenenza comune. Surfacing to breathe dei Clustersun è uno degli album cardine dell’annata shoegazing, a partire da questa copertina così elegante che ricorda quella di Saturday night wrist dei Deftones. Il lavoro precedente della band catanese, Out of your ego, era tecnicamente ben fatto e aveva raccolto ottime recensioni in giro. Ma a mio parere aveva un problema di fondo: mancava di impatto, soprattutto sul fronte delle chitarre. Ebbene: a questo giro i Clustersun entrano in modalità “Fury road” e scatenano una potenza di fuoco impressionante. Il singolo Raw nerve è un avviso importante sulla nuova direzione intrapresa dal gruppo, così come Lonely moon, una sorta di inno dream pop che si trasforma in un’esposizione emozionante di sogni infranti.

Fader è invece l’ep degli Electric Floor, che sono un po’ la scheggia impazzita dello shoegazing italiano, quelli che si distanziano di più dalle caratteristiche base del genere, ma che allo stesso tempo ne confermano stile, portata e sentimenti. Nosedive è stata già raccontata come il pezzo che non è riuscito l’anno scorso a M83. Charming dress è invece il brano perfetto per chi ha fede nel post punk, nel riverbero, nella bellezza.

Questo insomma è ciò che siamo

E chi vuole unirsi a noi è il benvenuto.