Lunedì shoegaze. Il compleanno di Shoegaze Blog

pip

Otto anni fa questo piccolo sito iniziava la sua narrazione con un post diventato, nel tempo, una sorta di slogan emozionale collettivo: lo shoegaze è il punk degli introversi. L’idea era quella di ritrovarsi come comunità tra quei suoni spigolosi e avvolgenti – volumi alti, cuori altissimi – e provare a dare una visione che fosse libera da stereotipi e limitazioni. Non so se io e le altre persone che dal 2017 hanno contribuito a Shoegaze Blog – grazie a Giuseppe Musto, Ilaria Sponda, Federica Palladini, Giulia Quaranta, Luca Sanguineti e Agnese Leda (lei è ormai una colonna) – siamo riusciti nell’intento, ma è stato un viaggio incredibilmente lungo, appassionante, pure un po’ faticoso. È una bella sensazione sapere che il sito è ancora qui. Non so quanto durerà, ma voglio godermi questa esperienza fino in fondo. E tu? Che album e gruppi hanno scandito il tuo vissuto in questi otto anni? Raccontami la tua storia e dimmi, soprattutto, come stai.

Greet Death, Die in love

Se devo dire tre nomi di band che, a mio avviso, hanno una visione contemporanea del concetto di musica rock (testi che ti dicono la verità senza indorartela con la banalità e musiche che nessun algoritmo riuscirà a replicare con la stessa umana, disperata tensione emotiva) mi vengono in mente le Mannequin Pussy, i Foxing (il disco eponimo uscito l’anno scorso è stato un po’ snobbato, ingiustamente) e i Greet Death. Die in love arriva sei anni dopo il mastodontico New hell e conferma, rilancia, conquista. La traccia che dà il titolo al lavoro è una specie di oscillazione sonora tra un caos fratturato alla My Bloody Valentine di Only shallow e un cantautorato metropolitano. Same but different now è una corsa notturna post punk, in fuga da ciò che eravamo e senza sapere dove sarà il nostro punto d’arrivo. Emptiness is everywhere ha quella melodia alla Smashing Pumpkins – altezza Pisces Iscariot – che rende la solitudine un dolore cantabile («My dad lost his oldest friend a year ago. And I can’t handle it, the fear of losing all the people in my life that I hold close And the few I love so much, please don’t let go»). Però anche quando si ascoltano versi come «Singing love me when you leave», sembra quasi che gli statunitensi Greet Death siano in qualche modo in grado di trovare un senso, uno spiraglio, un margine per non cedere del tutto al nichilismo. All’inferno e ritorno, o qualcosa del genere.

Pip, Loaf

D’accordo, il nome è una sorta di autosabotaggio: prova a digitare su Google (ma suggerisco come alternativa Ecosia) o TikTok la parola pip. Esatto, troverai di tutto, tranne che questa band britannica. Cerchiamo allora di raddrizzare la situazione con un elogio di Loaf, un singolo che nel suo approccio armonico molto classico contiene alcuni degli elementi che mi piacciono di più: il ritmo in sette quarti, gli arpeggi morbidi alla American Football, una vocalità intima e smussata, un baricentro che si sposta brutalmente quando entrano in gioco le distorsioni. Forse il ritornello urlato è un elemento di rottura che suona acerbo e non amalgamato dentro un contesto così raffinato, ma i pip sono un’ottima band e qui c’è del potenziale.

Highspire, Crushed

Dopo una pausa di oltre un decennio, gli Highspire, dalla Pennsylvania, fanno il loro ritorno con Crushed, un disco di musica shoegaze alla vecchia maniera: vibrato, pressione sonora, orecchiabilità. L’epica malinconica di Gloria è puro punk per gente introversa, She talks in maybes ha quella melodia Ride che è come un bentornati a casa, Trixter è uno stop & go molto efficace di suoni sfalsati e reverse reverb. Rieccoli, rieccoci.