Ride, Milano. Un suono che riconosci

Foto Cecilia Gatto

Milano, 7 maggio 2025. Arrivo all’Alcatraz appena in tempo per vedere l’unico momento wtf della serata, ovvero un tizio che in preda a una botta di – 1) euforia da Champions? 2) Gods of Metal autoindotto? 3) ballo di San Vito per shoegazer? – lancia un urlo in falsetto e getta in aria un bicchiere di birra come se stesse per annunciare, rivendicandola, una rissa indiscriminata: la gente accanto a lui si sganascia dalle risate, il tafferuglio è in realtà un tambureggiare di pacche sulle spalle. Io faccio un saltello per evitare qualche goccia e osservo la situazione con la faccia cubista di chi non ci sta capendo nulla.

Il martello di Thor

I Soviet Soviet, che presentano alcuni brani dal loro nuovo disco in uscita prossimamente, mettono in scena il loro tipico spettacolo di post punk e sganassoni. Suonano drittissimi e giustissimi per una quarantina di minuti e tengono il palco in stile headliner: con cazzimma. Andrea Giometti agita il basso tipo il martello di Thor, un corpo contundente che minaccia sfracelli e li mette pure in pratica, rischiando di travolgere i piatti della batteria. 

Quasi come in sala prove

I Ride arrivano quasi con l’intenzione di schivare gli applausi: sobrietà, modestia, leggerezza. È un’atmosfera più da sala prove, nel senso migliore. C’è infatti un suono equilibrato ma denso, sporco, tangibile: vibrazioni che scuotono l’impianto dell’Alcatraz e la generale consapevolezza di essere in un contesto intimo, di facce amiche e sorrisi diffusi. D’altronde ci si conosce praticamente tutti: si vedono componenti di We Melt Chocolate, Stella Diana, In Her Eye, In A State Of Flux, swan•seas, Indie For Bunnies, siamo insieme, concentrati, felici. 

Foto Cecilia Gatto

Io con i tappi per le orecchie

Ok, il pubblico milanese all’inizio è il solito contorno di cartapesta: una scenografia, più che una presenza. Io stesso, peraltro, me ne sto a braccia conserte con i tappi nelle orecchie, non esattamente un’immagine rock’n’roll. È la prima volta che vedo i Ride dal vivo e do forse l’impressione di essere capitato lì per caso, ma questa festa mi appartiene eccome e non posso che concordare con un ragazzo davanti a me che si lascia sfuggire la recensione definitiva: «Minchia concerto». Ci sciogliamo presto, insomma.

Foto Cecilia Gatto

Colbert un’iradiddio

Per qualcuno le chitarre di Andy Bell e Mark Gardener si sentono poco. Secondo me, invece, sono ok. Monaco, per dire, ha un colore diverso, più carica nelle basse frequenze e più appuntita nelle alte, dunque ha un passo aggressivo che pare adatto a un live. In Last frontier il basso di Steve Queralt è affiancato da un secondo basso suonato per l’occasione da Gardener. Ma è con il repertorio passato che la faccenda prende una piega differente. In Dreams burn down le distorsioni si sbriciolano in rumore bianco. Vapour trail continua ad avere quella tristezza dolce che ti ricorda com’è sentirsi vulnerabile nell’istante in cui avresti voluto essere invincibile, mentre Cool your boots – miglior momento della serata – è un best of dei Ride concentrato in un solo pezzo, con un Laurence Colbert che è un’iradiddio di tecnica, potenza e follia – che razza di ritmo bellissimo, furioso e scombinato tira fuori.

Foto Corrado Angelini

Tutto come doveva essere

In generale, è come se le canzoni dei primi album fossero triplicate per intensità, surclassando le versioni studio. E alla fine, la sensazione è che tutto sia andato come doveva andare e che tutti siamo stati dove dovevamo essere. A volte basta questo: un suono che riconosci e un posto in cui ritrovarti.