Intervista: Davide de Polo (In a State of Flux). Il signor Shoegaze

Se abiti a Milano e ami lo shoegaze, ma anche il dream pop più etereo, il post punk assassino o la psichedelia più storta che c’è (insomma tutta quella scena di fragori e batticuori che popola da qualche anno questo sito), è molto probabile che tu abbia assistito a un concerto organizzato da lui. Davide de Polo è un po’ il padrino del nuovo shoegaze italiano, colui che con il festival itinerante In a State of Flux (che ha fatto anche delle tappe al di fuori della Lombardia) ha dato l’opportunità di un palco a un bel po’ di gruppi del movimento italogaze. De Polo, che è anche un dj (The Persuaders Dj Set) e ha suonato nella deliziosa band indie pop – tendenza british – Mystic Morning, è ciò che dovrebbe essere chiunque si occupi a vario titolo di musica: una persona meravigliosamente appassionata. E, fatto non secondario, è per il noi, non per l’io.

Davide, partiamo dalla base. Che cosa serve per organizzare concerti di rock alternativo, a volte anche alternativissimo?

«È importante avere una passione smodata per la musica e per i generi di nicchia. Ovviamente se vuoi fare bei soldi, dimenticatelo».

Come hai iniziato questa tua attività di organizzatore di concerti?

«Ho iniziato negli anni Novanta, organizzando live per un mio progetto e chiamavo altre band dell’underground milanese. Ho ripreso in maniera più continua soltanto nel 2016 quando io e Dario Torre (Stella Diana, ndr) abbiamo fondato In a State of Flux».

Il mio è un egoismo paradossale in quanto collettivo, non autoreferenziale

Qual è stata la scintilla del Flux?

«Il Flux è nato abbastanza casualmente: ho sempre desiderato di realizzare un festival, avevo già il titolo in mente, qualcosa che rappresentasse un’evoluzione continua, un concetto che mi piace molto. Dario un giorno mi ha contattato dicendomi che sarebbe venuto a Milano a presentare un libro e mi ha proposto di organizzare un live. Gli step successivi sono venuti piano piano, soprattutto da quando ho messo in stand by il mio progetto Mystic Morning: non avendo una band mia da promuovere, posso dedicare tutto il tempo che ho per promuovere altri gruppi, è qualcosa che mi dà più soddisfazione. Quando hai un complesso, infatti, hai sempre paura di fare spam, è qualcosa di autoreferenziale, ma quando curi altre band te ne freghi e vai dritto. Ho un ego paradossale in quanto collettivo, mi piace scoprire nuove band, promuoverle, aiutarle a far partire un nuovo percorso. Negli ultimi tre o quattro anni è andata così».

Come vedi la scena shoegaze e derivati?

«È in crescita, anche se lentamente. È difficile che i ventenni si avvicinino a questo genere, ma gli esempi non mancano, come Inframell0w. Forse non c’è stata ancora un’esplosione, ma ogni anno due o tre band nuove vengono fuori e questo è più che sufficiente. Il mio sogno è sempre stato avere a che fare con una realtà così. Quando ho iniziato venticinque anni fa non c’era una comunità di musicisti che si supportano a vicenda. Forse sono arrivato troppo presto».

Oppure sei arrivato al momento giusto.

«Chi suona una certa musica non lo fa perché è di moda. Tutti noi siamo sulla stessa lunghezza d’onda, siamo dei nerd contaminati dalla sindrome di Kevin Shields. Ci confrontiamo su tutto, dai pedalini alle registrazione, per esempio mi capita spesso di farlo con i Clustersun e i Rev Rev Rev. Siamo una grande famiglia. Poi è bello vedere per esempio exploit come quello dei Mondaze, che sono stati trasmessi da Bbc Radio, per non parlare di Dkfm che passa tutte le nostre band. Nell’era pre internet tutto ciò non sarebbe stato possibile».

Qualche band che ti piace particolarmente?

«Tra i giovani il già citato Inframell0w, che mi dà molta speranza sul futuro della scena. Poi ovviamente We Melt Chocolate, New Candys, Big Mountain County, Gae Vinci, No Pine Mall. Ma ce ne sono tantissime. Mi piace coinvolgere le realtà locali, coltivare il vivaio cittadino».

Rispetto a ciò che si sente all’estero, la scena italiana come si posiziona?

«A livello underground siamo ok, non dico che l’Italia sia un punto di riferimento mondiale, ma sicuramente in Europa suoniamo bene questa musica e anche in modo personale, non è un mero copia e incolla. Ci sono tanti gruppi statunitensi e britannici che sono ottimi ma canonici, noi invece assimiliamo ed elaboriamo diversamente. Una via italiana esiste, non a caso si dice italogaze».