Slowdive, “Everything is alive”. Meno Slowdive, sempre Slowdive

L’estate si troverà probabilmente a centomila chilometri da qui, in un luogo remoto e irraggiungibile, quasi che il cambiamento climatico si sia finalmente rintanato nei cunicoli della distopia dopo aver bruciato gli alberi della Sicilia e devastato i parchi di Milano. Ecco, Milano. Di giorno il sole non è più un phon energivoro ma una luce gentile, un invito a uscire (se non fosse che devi lavorare e dunque vabbè). L’aria intorno, di sera, è leggera: ci passi attraverso e ti regala un piccolo brivido. La settimana che ha preceduto l’uscita di Everything is alive degli Slowdive è stata così: un prologo per un disco che, come si dice in questi casi, è autunno dall’inizio alla fine. Ed è anche un controcanto introverso rispetto alla – relativa – esuberanza shoegaze di Slowdive, l’album del 2017. Queste otto canzoni si risolvono algebricamente così: Slowdive – Slowdive = Slowdive. Nell’anno del trentennale di Souvlaki, il gruppo britannico dà l’impressione di volersi affrancare da una certa idea di musica che loro stessi hanno contribuito a costruire e che ormai è il pane quotidiano di un miliardo di altre band venute dopo di loro: le esplosioni, la densità, l’epica sono elementi che stavolta mancano – quasi – del tutto, in favore di un suono che va in sottrazione, ma non alla maniera di Pygmalion. Shanty, la traccia numero uno, parte cupa e sintetica alla Depeche Mode. Prayer remembered è uno strumentale in stile Cure, e che bello lo slowcore cantautorale di Andalucia plays – ascoltalo alle due di notte e lascia fare il resto alle emozioni. Skin in the game per me è tra le migliori canzoni in assoluto della band («’Cause you don’t say and I will never ask»: perfetto così). Ma forse la descrizione più azzeccata l’ha data la nostra Ilaria Sponda in uno scambio di messaggi incentrato su Alife: «Lo adoro, ha quel respiro che mi manda in botta». Personalmente ho bisogno ancora di ulteriori ascolti per farmi un’idea più precisa di Everything is alive, ma la rarefazione atmosferica di Chained to a cloud, una sorta di Boards of Canada trasfigurati dream, mi fa comunque dire che l’attesa non è stata vana.