Ogni giorno, più o meno attorno alle 17, un enorme calabrone della lunghezza di un dito medio leggermente incurvato viene a farmi visita sul balcone di casa mia, lato cortile interno. Se ne sta a osservare la zanzariera come se fosse una barriera invisibile realizzata con magia aliena, non rendendosi conto che, grosso com’è, sfonderebbe il reticolo con l’equivalente di uno starnuto umano – come sarà l’eccì di un calabrone? – e in quel caso mi ritroverei a urlare come se dio o chi per lui mi stesse tirando fuori dai polmoni tutte le bestemmie non dette negli ultimi quindici anni. Accanto al calabrone c’è Giancarlo, il mio piccione finto che dovrebbe spaventare i piccioni veri ma che in realtà è un inutile orpello kitch. Una volta infatti un colombo ha ingaggiato una sorta di corpo a corpo con Giancarlo: non vedendo nessuna reazione, il colombo ha fiutato il bluff e si è piazzato sul balcone per cagare sciolto proprio sotto lo sguardo spento del rivale. Ecco, tutto questo per dire che il calabrone e Giancarlo ultimamente sembrano essere diventati buoni amici. Li vedo che chiacchierano nel loro linguaggio misterioso fatto di ronzii e ondeggiamenti: chissà che cosa si raccontano, chissà che cosa pensano di questi stupidi umani chiusi in casa e sempre più strani, arruffati e un po’ tristi.
Midwife, Forever. La storia dietro questo disco riguarda un episodio personale di Madeline Johnston, la titolare del progetto Midwife. Nel 2018 è morto un suo amico, Colin Ward: “Stavo imparando così tanto da lui sulla vita e sull’essere artista”, ha raccontato Johnston. Forever è dedicata alla memoria di questa persona e le parole che aprono il disco sono terribili: “Sta davvero succedendo a me. Stai fottutamente lontano, 2018”. Intorno, uno slowcore ad alzo zero che punta al cuore e affonda l’anima. Un altro brano s’intitola Anyone can play guitar e al confronto i Radiohead sono gli headliner dell’October Fest. Lei descrive la sua musica come heaven metal, ma la strada per il paradiso sembra portare dritti a un inferno tenue, che lascia cicatrici che solo tu puoi vedere.
Buona Sueño, What the sea god said. Devo dire la verità: avevo trovato un po’ stucchevole il dream pop morbido di questo duo originario delle Hawaii. L’iniziale Mossy green sembra infatti una versione frivola ed estiva dei Cocteau Twins. Poi però la scrittura migliora e il suono pure, fino a trovare in Galapagos un singolo in grado di fare la differenza.
Moonlit Station, Daydreams. I sogni a occhi aperti di questa band di Udine ricordano in qualche caso – la splendida e dolente Before you lose, per esempio – certi tormenti in musica dei primi Low: doppie voci per una raddoppiata malinconia. Daydreams è una raccolta di dream folk intimo, ombroso, sincero: come succede di solito quando un sussurro manda ko più velocemente di un urlo.
Become The Sky, Written in the stars/ Rain down. Doppio singolo dream pop per questo progetto britannico. Written in the stars è un brano morbido che viaggia sul filo di una nostalgia appena accennata eppure palpabile, concreta, sensibile. Rain down scurisce ancora di più il suono dei Become The Sky, mantenendo comunque una fruibilità evidente.
Miele, Haven. Cantassero in italiano, i cremonesi Miele avrebbero buone chance di cavalcare l’onda in voga oggi e ricavarsi una propria nicchia garantita e profittevole. Invece loro, meravigliosamente testardi, scelgono l’inglese e lo condiscono di riverberi per un indie pop declinato dream che val bene il nostro supporto.
Marube, When. Nella musica dei californiani Marube c’è spazio tanto per un post rock cantautorale vagamente sullo stile degli American Football (Comfort) quanto per un indie pop allargato ai riverberi brillanti dei Real Estate (City pop). L’incrocio pare impossibile, ma funziona. Bene così.