Forse stai già ascoltando canzoni shoegaze create con l’intelligenza artificiale

Prima o poi dovremo porci la domanda: l’avvento dell’intelligenza artificiale nella musica segna la fine delle band indie? Nel mainstream la discussione è aperta da tempo. Alcuni dei nomi più rilevanti del pop (come Tori Amos, Kate Bush, Damon Albarn, Ed O’Brien e altri) hanno pubblicato un album muto per protestare contro le possibili concessioni del governo britannico alle aziende di AI sull’utilizzo di brani protetti dal diritto d’autore. Ma un dibattito simile manca nel mondo micro-indipendente, perché forse non si è ancora pienamente consapevoli dello scenario che potrebbe delinearsi nel futuro più prossimo. Perché è probabile che già adesso tu stia ascoltando canzoni shoegaze interamente generate dall’intelligenza artificiale.

Il caso Glasstrees

Qualche giorno fa su Reddit un utente ha avanzato dei dubbi su un progetto chiamato Glasstrees, ipotizzando che il repertorio fosse stato realizzato esclusivamente con l’AI. Il post è stato poi cancellato dallo stesso utente. Ho contattato sabato 8 marzo 2025 il profilo Instagram @Glasstreesnoise, ma finora non ho avuto risposta. Al momento, dunque, non posso affermare che la musica sia frutto di un prompt e non della creatività umana. Certo, ci sono stranezze.

What is real?

La bio con un link a PayPal

Dei Glasstrees si sa solo che sarebbero due persone, Miss Tree e Dr. Glass. In sé, per la verità, l’anonimato è una scelta artistica come tante altre. Ma colpisce, per esempio, che su Bandcamp al posto della biografia ci siano solo link a Facebook, Instagram, YouTube e PayPal, come se fosse più importante monetizzare che raccontarsi. Poi c’è l’attività social minimale: nessuna foto, post sporadici. Anche le copertine suscitano qualche perplessità, con una grafica astratta e asettica: si direbbe proprio AI.

Una discografia anomala

L’aspetto più anomalo riguarda la discografia. I Glasstrees hanno pubblicato diciotto lavori tra album ed ep in meno di un anno. Un ritmo talmente fuori scala che al confronto i King Gizzard & The Lizard Wizard sembrano i My Bloody Valentine. Non mi addentro sui dettagli tecnici che qualcuno ha sottolineato su Reddit (testi bizzarri, glitch sonori…) perché non ho ancora potuto verificare, ma un elemento rende tutto più complicato: un pezzo come Dreamy kaleidoscope non è nemmeno male.

Non finisce qui

A parte qualche variazione, lo schema si ripete con Sophie And Me: ci sono due nomi, Sophie Brightman e Javier Manriquedelara, ma la bio è scarna, non si trovano foto, non ci sono profili social e c’è un enorme numero di album pubblicati in un breve lasso di tempo. Mancano le prove che tutta questa produzione sia riconducibile alla sola intelligenza artificiale, ma i dubbi restano. Quel che è sicuro è che è possibile creare musica semplicemente digitando qualche frase al computer. Ed è improbabile che nessuno ne abbia fatto uso nello shoegaze.

Sophie And Me

A misura d’algoritmo

La sensazione è che chi decide di produrre musica in questo modo lo faccia per andare in scia del passaparola di Reddit, ottenere visibilità su TikTok e agganciare senza sforzo quella viralità sotterranea che ha premiato i Julie e, soprattutto, Wisp. Oppure, più banalmente, per caricare online quante più tracce possibile e guadagnare qualche euro. Il punto è che le dinamiche di sfruttamento e svalutazione del lavoro creativo stanno colpendo anche un contesto dove la musica nasce per pura espressione artistica, senza l’aspirazione di finire in una pubblicità su Canale 5. Lo shoegaze generato dall’AI diventa invece arte per l’algoritmo, amplificando a dismisura il cosiddetto rabbit hole che già caratterizza la fruizione nelle piattaforme: proporre di più di ciò che già conosci. Insomma, si avvera la profezia di chi è abituato a liquidare lo shoegaze con un commento superficiale: sempre la stessa musica, dannazione. (No, non lo è).

E se uscissero dieci milioni di album?

Intendiamoci: sono abbonato a ChatGPT, non ho pregiudizi nei confronti dell’intelligenza artificiale (ma non è affidabile nella ricerca di informazioni, come nel caso delle migliori band shoegaze italiane). Restando in ambito musicale, però, è evidente che l’utilizzo cinico di questa tecnologia rappresenta un’insidia non solo per chi opera nelle major, ma anche per chi vive nell’underground. Già oggi il settore è saturo: «Si pubblica più musica in un solo giorno rispetto all’intero 1989», ha detto Will Page, ex chief economist di Spotify. E se, nei prossimi due mesi, tremila dischi shoegaze fatti con l’IA inondassero il mercato e il 2% di questi diventasse virale su Reddit e TikTok? E se nei prossimi due anni uscissero dieci milioni di album dream pop realizzati con lo stesso prompt? Sono scenari ipotetici, ma plausibili, con i quali bisogna fare i conti. Da beautiful noise a rumore di fondo il passo è breve.

Il destino delle band

Quale sarà allora il destino delle band e degli artisti shoegaze, specie chi fatica a farsi ascoltare e a trovare un palco su cui esibirsi? La prospettiva di un’esplosione dell’offerta discografica drogata dall’IA finirebbe per togliere spazio alla musica indipendente. Sento l’obiezione: «Ehi, se un computer riesce a fare quello che fai tu, sei tu a non avere talento». Ma il problema non è la mancanza di talento. È l’ascolto di oggi che è pigro, omologato e disincentivato alla sfida: tracce sempre più brevi, canzoni sempre più lineari, generi sempre più rigidi. Si capisce quindi chi potrebbe prevalere tra un gruppo imperfetto secondo i canoni attuali (ma sorprendente nelle idee, nell’intensità e nell’emozione) e un software che sa creare esattamente ciò che vuole l’algoritmo. E poiché l’algoritmo non è programmato per sorprendere l’utente, ma per accontentarlo, noi ci accontentiamo: non è nemmeno male questo brano.