Nel 1991 ho iniziato a essere una bambina turbata. Non turbolenta, turbata, forse perché andava in onda in prima serata David Lynch e la sua serie cult Twin Peaks e per colpa di quella visione non mi era possibile star sola in una stanza senza pensare a Bob in un angolo con la faccia maligna. Vi fu però un episodio legato alla mia Prima Confessione. Quel pomeriggio in chiesa mia mamma non mi accompagnò per via delle nausee gravidiche e mio padre non venne per via dei suoi nauseanti turni a lavoro. Prima di uscire di casa dissi già turbata a mia madre: «Non ho nessun peccato da dire al prete».
La solita faccia pallida
Nella navata centrale stavano seduti tutti gli aspiranti al corpo di Cristo, mentre in quelle laterali i genitori o chi per loro. Il prete ebbe la democristiana idea di chiederci di alzarci per andare ad abbracciare e baciare i nostri genitori in modo da essere perdonati per i peccati commessi in otto purissime primavere. Immaginatemi: un caschetto castano e la solita faccia pallida rimasta sola al centro di navata con attorno il reverbero dei baci e i mormorii immaturi dei cattobambini. Perlomeno mi balenò in mente qualche peccato da confessare e l’unico conforto fu il canto angelico di Julee Cruise che tornò a girarmi in testa per l’occasione.
Quando si chiamavano ancora April Rain
Nel 1991 i Drop Nineteens si chiamano ancora April Rain ma cambiano presto nome perché Greg Ackell (chitarra e voce) da piccolo e per gioco si divertiva a gettare roba dal diciannovesimo piano del suo appartamento. L’album di debutto – e iconico – dei Drop Nineteens è Delaware, pubblicato nel 1992, seguito da National coma, ma qualcosa accade qualche anno prima tra i compagni di corso della Boston University, un passaggio puro nel tempo e nello spazio che proverò a spiegarvi.
La voglia di emarginarsi
Li immagino sognatori annoiati dai corsi, con la voglia di emarginarsi dagli enormi spazi comuni del campus, impregnati di odori di colonie al pino misto ormone, caffè lungo, purè di patate e legumi della mensa, tabacco vario mixato, pelle enciclopedica e bibitini alla cola frizzante corretta. Una classica formazione universitaria che però sogna un viaggio al di là dell’Oceano, come una nuvola che vuole agglomerarsi e seguire il grigio tortora della vivace pioggerella britannica shoegaze. La formazione cambia nel tempo, si scioglie nel 1995 e poi torna nelle nostre allenate orecchie dopo trent’anni con il terzo album, Hard light, seguendo il rigenerato flusso del genere nel 2023.

Alternativa a tutto il resto
Da pochi giorni è invece uscito in vari formati 1991, un album che comprende le prime due sessioni demo della band per la promozione alle etichette. Perché è importante questa nuova/vecchia uscita? In quel tempo gli Stati Uniti, seppur nella loro maxi vastità, non hanno spazio per la musica shoegaze, sempre infiltrata come alternativa a tutto il resto. Delaware è impacchettato e studiato per i canoni del genere, ma alla base di tutto il percorso del gruppo ci sono proprio i pezzi del 1991.
L’album all’ascolto trasmette l’importanza di ciò che è irriproducibile, la purezza di quegli anni che le musicassette hanno raccolto e che nulla può più diffondere, facendoci possedere dagli spettri del passato in un bellissimo anacronismo. È uno di quei dischi che vanno lasciati girare senza un perché, senza sosta e senza un domani. Puro concetto uditivo dove il tempo sembrerebbe non bastare, macinando ritmo e schiantandosi nei mattoni di quelle mura universitarie, un suono quasi tribale che si alterna a sigle angeliche con note riverberate che nessuna chiesa può comprendere.
