DIIV, Milano. E noi tutti abbiamo urlato

Milano, 20 novembre 2024. E pensare che avrei potuto perdermelo. Ritardare l’acquisto di un biglietto è una pessima scelta in quest’era di sold out. Poi all’ultimo un amico mi dice che non può andare e mi chiede se voglio il suo biglietto. Non me lo faccio ripetere due volte. Arrivo con un’ora di anticipo e mi metto in coda fuori dai cancelli del Magnolia. Siamo pochi e capisco perché: dopo dieci minuti non mi sento più le mani. Si congela. Dietro di me dei ragazzi (ragazzə, oddio non lo so, perdonatemi) senza giacca. Avranno vent’anni, sono felici e socievoli, scambiamo qualche parola. È una bella generazione, penso, e mi sento vecchissimo per averlo pensato. Comunque in coda c’è gente di tutte le età, chapeau ai DIIV che sanno parlare una lingua intergenerazionale. 

Il set sbagliato

Finalmente aprono i cancelli. Niente cibo, mi dice la sicurezza. Ho una banana nello zaino, dico. Quella è okay. Passo diversi minuti a chiedermi: «La banana non è cibo?». Sto tergiversando. Siamo io e un amico. Prendiamo qualcosa da bere ed entriamo in sala. Aprono il concerto Tim Kinsella & Jenny Pulse, un duo elettronico, basi, voce e chitarra. La band non sembra a proprio agio, il pubblico percepisce il distacco e l’intero set suona sbagliato e poco coinvolgente. Le basi elettroniche danzereccere non si sposano mai del tutto con le linee vocali e con gli arpeggi di chitarra.

I due parlottano tra di loro alla fine di ogni brano come se stessero cercando la quadra proprio lì

Sembra una prova, più che un live, con i due che parlottano tra di loro alla fine di ogni brano come se stessero cercando la quadra proprio lì, su quel palco, quando invece avrebbero dovuto farlo prima di salirci. Vengono campionati (male) spezzoni di altri brani mentre la cassa dritta della drum machine martella costantemente e non lascia respiro a qualche buona trovata chitarristica appena abbozzata. Le loro sono idee di pezzi, più che pezzi veri e propri. La sala inizia a riempirsi, ma gli applausi scarseggiano. Termina il live con una versione karaoke di Under pressure piuttosto imbarazzata (e imbarazzante), poi salutano il pubblico. Sento qualche sospiro di sollievo, o forse sono io che sospiro così forte da convincermi di non essere il solo ad aver trovato tutto questo dimenticabile. Chiedo a Simone. Ride e concorda. Me li scelgo bene gli amici. 

Il video motivazionale

Finalmente arriva il momento dei DIIV. Il live è anticipato dalla parodia di un video motivazionale che ci invita a prepararci a un’esperienza mistica, non un semplice concerto ma un viaggio nella nostra anima che ci cambierà la vita. Pretenzioso e divertente, è solo il primo di una serie di filmati che riflettono sulle ipocrisie dei nostri tempi. Video di propaganda, marketing spinto, green washing e chi più ne ha più ne metta. Una patina di bellezza che nasconde violenza. E forse non è questa la musica dei DIIV? Ecco, per l’appunto, parliamo di musica, perché di cose da dire che ne sono eccome. Da subito capiamo che ci troviamo di fronte a una band di un altro livello. I suoni sono perfetti, i riff di chitarra si incastrano magicamente a quelli di basso e creano trame labirintiche che incantano il pubblico. 

Ecco cos’è la bravura: rendersi necessari senza mettersi in mostra

I DIIV hanno una capacità rara, quella che tutte le band, o più in generale tutti gli artisti, sognano di possedere: sanno mantenere sempre alta la tensione. E non è questione di volumi. Anche sui pezzi più delicati inseriscono sempre un motivo di disturbo, una dissonanza, in grado di mantenere viva l’attenzione dell’ascoltatore. Cosa dicevo prima sui visual? Bellezza e violenza? Ecco, anche nella loro musica questi elementi si fondono. Le voci, lontane e riverberate, sembrano provenire da un altro mondo. Sono uno strumento musicale al pari di chitarra e basso, ci sono e non ci sono, stanno sempre un passo indietro, pur restano fondamentali. Ecco cos’è la bravura: rendersi necessari senza mettersi in mostra, senza prevalicare gli altri. E i quattro musicisti di Brooklyn sono bravi davvero. Sono a loro agio sul palco, empatizzano con il pubblico senza mai dire una parola. Il loro è un linguaggio non verbale, fatto di arpeggi e riff che ti abbracciano e poi, quando meno te lo aspetti, ti tirano un pugno nello stomaco.

Durante Everyone out è successa una cosa. Il chitarrista Andrew Bailey ha iniziato a guardare il pubblico dritto negli occhi con un sorriso sghembo e inquietante. Mi sono sentito a disagio, e ho realizzato che quel disagio è una costante nei loro pezzi. Ma c’è un’altra cosa che è sempre presente. In ogni brano arriva un momento in cui la musica si apre e ti avvolge, spesso dopo essersi svuotata e aver creato spazi che ognuno di noi può riempire con le proprie ansie. Ecco, quando questo accade, è come se ci stessero dicendo: «Sì, sappiamo di averti messo a disagio, sappiamo che ci sono storture ovunque e che è difficile vivere in questo mondo oscuro, ma adesso puoi lasciarti andare. Adesso puoi urlare».

E noi tutti abbiamo urlato.

Quando sono uscito mi sentivo bene.