Intervista: submeet. Di aeroporti e altre ossessioni

Submeet (foto di Ilenia Arangiaro)

I Submeet stanno per pubblicare il nuovo lavoro, Terminal, in uscita il prossimo 24 gennaio per Lady Sometimes Records. Il trio imbastisce un racconto tra post punk affilato e noise contundente, una roba che a volumi adeguati si trasforma in un’assoluta dimostrazione di potenza. Della serie: attenzione che qui non si scherza affatto, come si sente in Nimby, il nuovo singolo in anteprima esclusiva su Shoegaze Blog.

I Ride fanno schifo

La esse di Submeet va scritta maiuscola o minuscola?

Zannunzio (basso, voce): «Minuscola. Nasce come scelta grafica, ci piaceva scritto in quel modo».

Vada per submeet, allora.

Jacopo Rossi (batteria, voce): «È anche carino il concetto che può starci dietro, un anti protagonismo latente. Ci piace stare rasoterra, a testa bassa».

In effetti lo shoegaze nasce anche come reazione alle pose da dio del rock.

Andrea Guardabascio (chitarra, voce): «Anche i loghi di Slowdive e My Bloody Valentine sono scritti in minuscolo». 

Jacopo: «Infatti i Ride fanno schifo (ridono tutti)».

Cattivi.

Jacopo: «No, dai, non sono male i Ride».

Lasciamo perdere e parliamo invece di Terminal. Il concetto di aeroporto è al centro del vostro nuovo disco. Perché questa scelta? Che tipo di narrazione fate?

Zannunzio: «In realtà tutto nasce tanto tempo fa. Avevo dieci anni quando ho comprato un disco, Around the sun dei R.E.M., che avevo scoperto guardando su Mtv il video di Leaving New York, che è ambientato in aeroporto. Da quel momento sono rimasto affascinato da questo luogo».

Avevo pensato pure io ai R.E.M., però a un altro pezzo, Airportman.

Zannunzio: «Che è un’altra delle mie canzoni preferite. Adoro la base minimal che sta dietro a quel brano. Sono uno dei fan più grandi dei R.E.M. in circolazione. Ma al di là della musica, c’è un altro motivo che mi lega agli aeroporti: sono mezzo spagnolo e mi sono sempre ritrovato a viaggiare. È in effetti un’ossessione, così mentre lavoravamo al disco nuovo ho pensato che sarebbe stato interessante utilizzare l’aeroporto come espediente narrativo, in fondo è un luogo-non luogo».

Jacopo: «Io e Andrea non abbiamo questa ossessione per gli aeroporti, ma abbiamo accettato di rendere questo tema centrale nel disco perché si collega bene con concetti filosofici che volevamo affrontare. In fondo l’aeroporto è un posto di cemento e ferro, un luogo di macchine e di macchinari».

Voi raccontate l’aeroporto come qualcosa di totalmente disumanizzato.

Andrea: «È una metafora del mondo in cui viviamo, che non è altro che un piccolo puntino nel nulla. Ci sentiamo dispersi in questo pianeta alienato. Nel video del brano Terminal diretto da Zannunzio si vede un omino che si aggira all’interno dell’aeroporto, ma non c’è nulla attorno a lui: è piuttosto angosciante. Le nostre vite sono così: vaghiamo un po’ a caso, aspettando sempre che succeda qualcosa».

Zannunzio: «Terminal è una parola con varie connotazioni: aeroporto, computer, televisione, telefono, fine, morte. Si collega a tutti i vari aspetti che volevamo trattare».

Che rapporto avete invece con l’aereo? Qualcuno di voi ha paura di volare?

Jacopo: «Nessuno di noi ha paura. C’è un aeroporto di ultraleggeri che casualmente è di fianco alla nostra sala prove. Questa cosa ci ha fomentati. Abbiamo pensato pure di andare a scroccare delle lezioni di volo».

Provate ad atterrare all’aeroporto di Palermo e poi vediamo se non avete paura.

(ridono tutti) Zannunzio: «Siamo tre persone piuttosto impavide».

Cover-Terminal-submeet

Com’è nata la copertina di Terminal?

Zannunzio: «L‘immagine è un render fatto con contorni bianchi su sfondo nero. I contorni sono quelli di un terminal di un aeroporto, che poi è stato glitchato e lavorato da me con macchinari analogici. In pratica l’immagine viene disintegrata per poi prendere una nuova forma, quasi da campo di concentramento».

Avrei detto Tron.

Zannunzio: «Anche quello, sì».

Jacopo: «La torre di controllo sembra una torretta di vedetta».

Zannunzio: «L’immagine dà un senso di marcio, che poi trasportiamo nelle canzoni».

Veniamo da uno dei posti più inquinati d’Italia: Mantova

Parliamo del nuovo singolo. Nimby è una delle parole chiave del ventunesimo secolo. Come mai vi siete appropriati di questa sigla così forte? Come la intendete?

Zannunzio: «Siamo molto critici e cinici, ma anche ironici. In questa canzone volevo affrontare il tema del costruire del capitalismo inteso come sovrappopolazione, cementificazione e tutto quello che ne consegue. In questo testo si parla di inquinamento ambientale, un tema che sentiamo molto».

Jacopo: «Veniamo da uno dei posti più inquinati d’Italia, Mantova. Da giorni abbiamo una fitta nebbia che ci ha regalato una tosse insistente».

Zannunzio: «Not in my backyard è un inno a una visione un po’ anticapitalistica».

Non avete paura che con l’inglese il vostro messaggio vada un po’ a disperdersi, per via della non ottimale comprensione della lingua qui in Italia?

Zannunzio: «L’operazione della stesura di un testo è personale e contaminata da quello che ascoltiamo. Pensa ancora ai R.E.M.: nei primi dieci album non si capiva niente, ma comunque quello che scriveva Michael Stipe era considerato poesia. Quando scrivo un testo lo faccio per me, è un modo di liberarmi ed esprimere un disagio: che arrivi o non arrivi sinceramente non è un mio problema».

Jacopo: «Tutti gli strumenti parlano la stessa lingua, niente è casuale. Se i testi magari non giungono subito a destinazione, è il contesto a far arrivare il messaggio».

Zannunzio: «Nei testi voglio dare il colore nero alle parole che scrivo. Musicalmente, voglio sentire l’odore di bruciato della chitarra del maestro Guardabascio. Voglio mettere a disagio chi ascolta. I versi che uso nelle canzoni chiudono solo il quadro».

submeet
Foto di Ilenia Arangiaro

Vi sentite una band politica?

Zannunzio: «Non siamo schierati, c’è di fondo un po’ di anarchia. Però se intendi per politica il veicolare certe idee che possono essere frutto di dibattito allora ti dico di sì. Riprendo sempre i R.E.M., che facevano spesso questa roba. Mi sto però rendendo conto che sto parlando solo di loro…».

Non si parla mai abbastanza dei R.E.M.

Zannunzio: «Nella scrittura dei testi faccio riferimento a loro, ma abbiamo altri ascolti».

Per questo disco avete estremizzato i suoni rispetto al precedente. Come mai?

Jacopo: «Il disco precedente era uscito più soft di quanto volevamo».

Zannunzio: «Abbiamo iniziato ad ascoltare robe più hardcore. C’è stata poi una crescita personale: abbiamo iniziato a lavorare e a sentire la stanchezza del vivere, quindi abbiamo un cinismo di fondo, potevamo questo album in tanti modi, ma l’unico che ci piaceva ma che ci sembrava perfetto a livello mentale era proprio sfruttare il più possibile il rumore che si riesce a fare con strumenti convenzionale».

Jacopo: «Dovevamo dare fastidio».

Andrea dà la sua chitarra al pubblico

Jacopo: «Alla fine di ogni concerto facciamo sempre una canzone, Audiodrome, in cui Andrea a un certo punto dà la sua chitarra alle persone del pubblico e loro fanno quello che vogliono, mentre lui si mette a spippolare con i pedali. È un momento di comunità molto bello».

Andrea: «Sembra che vogliamo attirare l’attenzione perché facciamo rumore, ma in realtà è tutto molto ludico».

Ma la storia che i Preoccupations hanno scelto voi per l’apertura dei loro concerti italiani è vera o è una sparata promozionale?

Zannunzio: «Se cerchi Preoccupations Death bass cover, l’unica cosa che trovi è un video di me con i capelli alla Legolas che faccio una cover di quel brano. Ho fatto il video, l’ho caricato su YouTube e ingenuamente l’ho mandato al gruppo».

E poi?

Zannunzio: «Mi hanno risposto un anno dopo, facendomi i complimenti per i miei lavori. Ci siamo poi visti all’Hana-Bi, nel luglio 2018. Io e Andrea abbiamo beccato in giro il batterista e gli abbiamo dato il nostro disco. Due mesi dopo, ci hanno contattato chiedendoci di aprire i loro concerti italiani. Ho anche gli screenshot, eh».

Jacopo: «Poi la mafia dei concerti italiani ci ha concesso di aprirne solo uno». 

Zannunzio: «Continuiamo a sentirci con loro. Sono persone splendide». 

Jacopo: «È nata un’amicizia. Il batterista l’abbiamo accompagnato in albergo ubriaco».