La neopsichedelia e le cinque band che mi hanno fatta innamorare della musica

Foto di Ilaria Sponda

Vi ricordate delle canzoni che vi hanno fatto innamorare della musica? Di quelle che al solo pensiero la mente viene travolta da emozioni rivoluzionarie e riassapora la volontà di volersi mostrare al mondo. Che adesso le apprezziate come una volta oppure no, non importa, fanno parte di ciò che eravate e di ciò che siete diventati. Oggi, con questi brani tratti dal pianeta della neopsichedelia, metto a fuoco il seme del mio innamoramento, germogliato in Australia, dove ebbi un’epifania sul mio essere nel mondo e iniziai a capire qualcosa in più di me. Da quell’inizio non passò molto tempo prima di vedere i primi frutti del mio interesse per il dream pop e lo shoegaze, che come è noto, provengono proprio dalla psichedelia inglese degli anni Settanta. Il primo infatti non è che una declinazione in chiave più pop, sognante, suggestiva e delicata di chitarre riverberate e voci eteree e androgine; il secondo invece si è originato da una sperimentazione sui generis che ha visto l’unione di feedback e distorsioni di chitarre con arrangiamenti melodici.

È tempo allora di premere play e far sì che i suoni alterino la percezione, la realtà, il senso di tempo e spazio.

I couldn’t but feel my real self, in such a deep, psychedelic reverb

Tame Impala, ElephantFu pubblicato come primo singolo dell’album Lonerism (2012), LP di spessore e ineguagliabile nella storia della neopsichedelia. Il riff spesso della chitarra monotona è il filo rosso di questa narrazione mai uguale nell’ascolto, per i molteplici passaggi di ritmo sincopato e avvolgente che creano svariate mappe da percorrere. Vivido, espansivo, colorato da un beat pesante: è pura estetica per le orecchie. Si può ritrovare lo stesso calore allucinogeno degli Stone Roses ma con l’accompagnamento di una voce più annoiata, di un Kevin Parker insonne e beato nella sua solitudine.

Melody’s Echo Chamber, I follow you. Registrato tra Perth e il Sud della Francia, questo brano parte del debut album del progetto di Melody Prochet, è quanto di più etereo ed epifanico mi si potesse presentare. Nella delicatezza e purezza di questa artista ci ho visto subito il mio alter ego e ora come non mai la sento parte di me. Basso, batteria e chitarra elettrica sono suonati dal sopracitato Kevin Parker, a cui Melody deve l’avvio del   suo meraviglioso viaggio tra space e psichedelic rock. C’è da aggiungere che ritrovo in questo pezzo forte gli echi di The Piper at the gates of dawn (1967) dei Pink Floyd, band cui sono affezionata e che è stata il sottofondo della mia infanzia.

Moses Gunn Collective, Dream girls. Brisbane fa da sfondo a Mercy mountain (2015), primo e ultimo album del collettivo di cui fa parte questo brano. Una patina vintage e orientaleggiante copre come un velo di polvere la freschezza dream pop. Le alterazioni dei suoni delle voci sono l’ingrediente principale di questo sogno ad occhi aperti o sogno lucido. L’eco del ritornello risuona in loop nella testa una volta concluso l’ascolto. Poco ci manca di avere le allucinazioni e poter giurare la ragazza dei sogni proprio davanti agli occhi. “Is that you dream girl?”.

King Gizzard & The Lizard Wizard, Crying. Geelong, la cittadina sull’oceano in cui ho vissuto ai tempi dell’esperienza australiana, aveva un’aria strana: aleggiava l’aura di questa band più unica che rara. Mi imbattei nell’album uscito nel 2014, Oddments, e ci misi poco a innamorarmi del pezzo qui citato. Sette membri e una miriade di strumenti: le buone premesse per diventare il valore aggiunto del rinascimento psichedelico. La loro artisticità non conosce confini, quasi in emulazione della band statunitense The Brian Jonestown Massacre. Traspaiono inequivocabilmente la libertà, la tranquillità e lo spirito leggero che solo la cultura australiana e gli anni Sessanta possono lasciare in eredità.

Psychedelic Porn Crumpets, Found God in a tomato. Sfocato, caotico, rock nonostante tutto, di natura poliedrica e instancabile. High visceral, part. 1 (2016) è il primo album della band, che raccoglie tante influenze di band simboliche per il genere ma le approccia duramente fino all’ultimo riff. È una musica che viene dalle viscere, le vibrazioni scivolano in profondità e inebriano la mente. Un altro punto a favore? La stravaganza del loro nome e del titolo della canzone, un’ironia dietro cui si cela la più radicata drammaticità dell’esistenza.