Perfect – Un racconto di adolescenza, Smashing Pumpkins e un po’ di paranoie

di Manfredi Lamartina e Federica Palladini, tratto da Live! Racconti di vita e concerti, Arcana (2023).

A diciassette anni, nell’agosto del 1999, Enne decide di rasarsi a zero, perché tutto d’un tratto si è reso conto che le sue meches bianche – fatte per una di quelle scommesse alcoliche che all’inizio sono divertenti ma che poco dopo si rivelano per ciò che sono: ridicole – l’avevano reso più simile a un puffo che a un bassista post punk: quindi stop, zac, via. Il nuovo look pare dargli un’aria diversa, come qualcuno che conosci sin dall’infanzia ma che hai perso di vista per qualche anno: è ancora riconoscibile, però con un vissuto differente che di fatto lo rende un estraneo. Al ritorno a scuola, Bi, una nuova compagna di classe appena arrivata da un’altra sezione del liceo, per presentarsi dice a Enne che assomiglia a un cantante americano, una specie di vampiro rockstar che ha visto una volta su Tmc2 in un video intitolato “Eva adore”. 

«Eva, come Adamo ed Eva?», chiede Enne.

«Sì, credo fosse così», risponde Bi, all’improvviso insicura.

Conoscendo molto bene Enne, posso percepire nitidamente il suo cuore smettere di battere, fermarsi come nelle scene dei duelli sotto il sole a picco nei film di Sergio Leone. Tradotto: studiare scientemente l’avversario di fronte per colpire per primo. Io sono lì che osservo e già so quale sarà la trama, a partire dalla battuta che sta per fare: «C’è chi dice che assomiglio anche a Billy Corgan». Accanto a lui c’è Doppiavù che sa a memoria la gag e infatti si copre la mano con la bocca per non sghignazzare. Bi, sorriso di circostanza di chi prova a celare la propria perplessità, risponde allora nel modo peggiore: «Non so, lui non lo conosco. Che canzoni ha fatto?». 

L’adolescenza è così: questioni di principio su tutto, specialmente sul niente, e non si fanno sconti quando ci si ritrova davanti alla peggiore delle colpe, l’ignoranza musicale. Ed eccolo lì, dunque, il volto di Enne trasformarsi in autoproclamato giudice del buongusto. Lascia cadere il discorso e torna a parlare con Doppiavù. Bi, poveretta, se ne sta lì interdetta come se qualcuno le avesse dato da leggere un libretto d’istruzioni sulla vita, fatto però di pagine completamente bianche. Vado verso di lei e le dico la verità: «A volte è un po’ stronzo, si comporta in questo modo con chi non conosce: deve crescere». Quante possibili storie d’amore ho visto nella mia vita accanto a Enne dissolversi così? Quante possibili madri dei suoi figli piazzarsi lì davanti, belle e intelligenti, ma malamente ignorate dopo il fallito test Smashing Pumpkins? 

Tra me e lui le cose sono andate diversamente perché non abbiamo avuto la possibilità di sceglierci: il nostro cammino era destinato ad annodarsi prima ancora di passare dal via. I miei futuri genitori e i suoi si sono conosciuti ai tempi dell’università, due coppie di amici che, chissà come, riusciranno a far durare negli anni quel loro miracoloso rapporto. Il destino vuole che entrambi veniamo alla luce a distanza di poche settimane, nel 1981: io fine ottobre, lui a metà novembre. Forse questa differenza di poco meno di un mese è bastata per farci avere caratteri completamente diversi, quasi antitetici, di sicuro poco compatibili: io solare e incline a un ottimismo realistico e non utopico, lui crepuscolare e tendente a vivere la vita come un ritornello grunge, ovvero una sorta di lamentela costante per qualsiasi cosa – dal ponte instabile della sua Jazzmaster all’ennesimo suicidio della sinistra italiana – che al confronto Francesco Bianconi è uno stand up comedian. Eppure, nonostante un approccio diametralmente opposto alla quotidianità, i nostri genitori hanno sempre avuto una bizzarra convinzione, cioè che saremmo rimasti per sempre amici per via di una piccolissima caratteristica: abbiamo gli occhi azzurri, come nessuna tra le nostre famiglie possedeva, pare, da generazioni. Un segno del cosmo, lo chiamavano così. 

Come uno stereotipo sempre più logoro che però continua ostinatamente a dettare l’agenda alla realtà, dopo gli anni del liceo Enne e io percorriamo il classico itinerario universitario che tante, troppe persone hanno affrontato prima di noi: lasciare il Sud per andare al Nord. Lui va in un capoluogo di regione dove spesso la gente ha la tentazione di ostentare un’esistenza al di sopra delle proprie possibilità, mentre io mi reco in una città di provincia dove non c’è praticamente nulla, ma non manca mai un bicchiere di spritz a buon prezzo. Entrambe le scelte, in effetti, ci calzano a pennello. Su Whatsapp Enne mi scrive di concerti nei palazzetti e allo stadio, io invece gli racconto di locali con le poltrone di pelle tutte diverse, le pareti blu, i sottoscala senza finestre. Lui non perde quasi nessun nome di spicco – nazionale e internazionale – che metta piede su palchi che arrivano a raggiungere i 100 metri di larghezza, mentre io segno sull’agenda ogni artista che suona al massimo davanti a trenta persone, ligia a questa regola non scritta secondo cui nel momento in cui qualcuno diventa famoso perde inevitabilmente il mio interesse: la condivisione di una canzone non fa per me, la musica è un fatto personalissimo. Entrambi, però, siamo affascinati da un dettaglio che ci piace credere di avere intuito solo noi, come un’epifania privata: chi sta “on stage” è sempre da solo con i suoi problemi. Una verità che unisce tanto il suo Billy Corgan quanto il mio Paolo Benvegnù. 

In tutto questo, la cosa veramente assurda è che Enne non è mai riuscito a vedere gli Smashing Pumpkins dal vivo. Conosce le canzoni meglio di chi le ha scritte, ma non ha idea di che cosa voglia dire ascoltare “Bullet with butterfly wings” in presa diretta, di fronte a una massa enorme di watt che potrebbe spostare di un paio di millimetri l’asse terrestre. Un’anomalia, questa di Enne, che è destinata a essere sanata quando sul mio smartphone compare una notifica di un suo messaggio: «Smashing Pumpkins, 18 ottobre 2018, Casalecchio di Reno, Bologna, Unipol Arena, 5.300 metri quadrati». Il momento è arrivato. 

«Ma com’è che non hai mai visto i Pumpkins in concerto?», gli chiedo quando riesco finalmente a trovare un posto dove lasciare l’auto, non troppo lontano dall’impianto. Lo stereo della macchina si ferma proprio nell’attimo in cui Maria Antonietta sta per cantare che no, non ha intenzione di deludermi. Una premonizione.

«Fondamentalmente per paura di rimanere deluso». 

Devo ammetterlo, la sua coriacea incapacità di rilassarsi riesce sempre a sorprendermi. «Signore e signori ecco a voi Enne, il peggior nemico della contentezza».

«Sfotti pure, ma il punto è che ci rimarrei di merda se non suonassero i miei pezzi preferiti. Tutte le volte che è successo – ed è successo tutte le volte – mi è andata di traverso la serata. Tu come la prendi quando a un live non suonano le canzoni che ti piacciono di più?».

«Io sono fortunata: ho gli stessi gusti delle band che vado ad ascoltare dal vivo».

Enne mi manda a cagare: poi ride. Miracolo. 

«Che cosa ti ha fatto cambiare idea? Perché mi hai chiesto di venire?», insisto.

Ci riflette per qualche istante, mentre camminiamo in una sorta di sagra del panino col wurstel che presidia la zona antistante l’arena. «Perché sono passati esattamente due decenni da quando ho ascoltato per la prima volta una traccia dei Pumpkins. Il brano era “Perfect”». 

«Ah, la canzone che tutti scelgono per ricordare “Adore”. Molto originale». Lo so, sto esagerando.

«Dai, non è vero».

«È anche il sequel di “1979”. Originalissimo», insisto un po’ cattiva.

«All’epoca non avevo ancora ascoltato “1979”, quindi al massimo per me è “1979” che è il sequel di “Perfect”». 

«Non fa una piega».

Lui fa finta di non ascoltarmi. «Di “Perfect” mi aveva colpito quel suono che mi faceva sentire incastrato nella nostalgia ma anche proiettato al domani. Avevo l’impressione che Billy Corgan fosse consapevole di non avere un suo posto specifico, di non sentirsi mai al passo con i tempi, e ciò nonostante ti dice che tutto è perfetto così com’è, anche se in fondo non lo è davvero. Questa canzone mi fa pensare a noi due, a un futuro che ancora adesso, a quasi quarant’anni, dobbiamo continuamente reinventare, ma che non ci ha mai intimorito».

«Questa è la cosa più ottimistica che ti ho sentito dire da, uhm, da quando ti conosco. E non è esattamente un inno alla gioia, ma mi accontenterò».

«È solo una fase preparatoria per quando scoprirò che, ovviamente, questo pezzo non sarà in scaletta».

«Nel caso torni a casa in autostop». Non sto scherzando, ma gli do un sorriso di incoraggiamento.

Di fronte a una delle toilette del palasport ci sono due ragazzi apparentemente maggiorenni piuttosto su di giri: già adesso sono prontissimi a saltare e dimenarsi, neanche stessero partecipando a una serata scalmanata per ventenni. Sembrano degli imbucati finiti chissà come alla festa sbagliata, perché intorno a loro non c’è giovinezza, semmai l’esatto contrario. L’età media è infatti molto più alta, intorno ai quaranta, e l’outfit d’ordinanza prevede uno stile primi anni Novanta che suscita più tenerezza che ribellione. Enne si infila in uno dei bagni, «che ancora non c’è nessuno», mi dice, lasciandomi all’ingresso. Sono certa che stia cercando tracce di sé lungo le geometrie sbeccate di uno specchio con più macchie che riflessi. Conoscendolo, starà pensando che il tempo, nel tempo, ha agito con uno strano senso dell’umorismo, visto che sul volto, infatti, nuovi difetti hanno preso il posto di quelli vecchi. Per esempio, i suoi giorni adolescenti erano scanditi dall’acne, che era come le feste comandate sui quadratini dei calendari: un puntino rosso che salta subito all’occhio. Adesso invece mi immagino Enne che nota con una smorfia quelle occhiaie che assediano il suo sguardo, quelle rughe che pattinano sulla fronte e soprattutto quei capelli che ogni giorno diventano sempre meno forti, sempre meno folti, sempre meno presenti. Difficilmente lo prenderanno come testimonial dello shampoo. Ma come sosia di Corgan, se non altro, potrebbe ancora giocarsela, se solo decidesse di liberarsi di quegli ultimi ciuffi che gli rendono la testa scombinata e senza stile.

Corgan, appunto. Quando spunta sul palco per cantare da solo il primo brano, “Disarm”, diventa evidente a tutti che quest’uomo è un sopravvissuto, come lo sono Eddie Vedder e Courtney Love: i testimoni di una generazione intera di cantanti che è stata spazzata via dall’eroina e dalla solitudine. «I used to be a little boy, so old in my shoes». Canta lui, canta chiunque. Le immagini che scorrono alle spalle del leader dei Pumpkins – il piccolo Corgan che ride, il piccolo Corgan che balla, il piccolo Corgan con ancora la vita intera davanti e l’inconsapevolezza di ciò che succederà – sembrano dire soltanto una cosa: guardate che quello che dico in queste canzoni è tutto vero. Ed Enne è lì, incastrato nella folla: siamo tanti, stretti come dita che s’intrecciano e col più bel sorriso possibile, tipico delle serate migliori, cioè quelle che ora dopo ora confermano ogni aspettativa. 

Ci sono 14.474 persone, di cui almeno 14.470 più alte di me. Proprio di fronte, fin dall’inizio del live, mi si è posizionato il più spilungone di tutti, come se sapesse che lo stavo attendendo, che desideravo con tutto il cuore che la sua silhouette scura entrasse in collisione con la mia vista e un po’ anche con la mia vita. Per questo preferisco poltrone di pelle lisa (con sedute sfondate e macchie di gin lemon che raccontano storie di connessioni intime e di poca tenuta ai superalcolici) a parterre pieni di gente che non contenta tiene su le braccia, salta e urla. Ma tant’è: vengo intercettata come un rabdomante trova una pozza d’acqua nel deserto e capisco che Billy Corgan nella mia memoria sarà un faccione gigante sul maxischermo, e va bene lo stesso. D’altronde io amo andare al cinema. 

Enne in un eccesso di entusiasmo rischia anche di rimanerci secco. Per un istante, quando Corgan si traveste da satanasso e sgancia il metal bruciato di “Zero”, mi chiedo se riuscirà a sopravvivere al pogo scomposto e criminale di un attaccabrighe dallo sguardo particolarmente cattivo. Il tizio sembra venuto fuori da qualche arena punk clandestina e ha voglia di sfogare una rabbia irrisolta con spinte assurde che vanno contro le tre leggi del rock: poga senza limiti, poga senza gomiti, aiuta senza chiedere. Un omone del pubblico si accorge della situazione e fa capire al ragazzo che non è il momento di rovinare la festa. La calca comunque prosegue con “The Everlasting Gaze” e farebbe paura pure a Mad Max, figuriamoci a Enne che non ha proprio il fisico del combattente: lo vedo perso e fuori controllo nel flipper infinito di corpi in movimento, finché la band abbassa i toni con “Stand Inside Your Love”: si gira verso di me, si avvicina, mi abbraccia.  

Quando scatta “1979”, sul maxischermo si vede il giovane Corgan del videoclip originale che viene portato in auto dal Corgan attuale, contemporaneo, invecchiato: non si capisce se quello sguardo stretto celi tristezza, disillusione, maturità. Che cos’è che vuoi dirci, Billy? Che cosa resta di quelle strade che abbiamo attraversato, di quell’adolescenza che abbiamo maledetto, di quei giorni che abbiamo rimpianto senza forse averli vissuti fino in fondo? Enne canta con quel suo buffo inglese italianizzato (consonanti sabbiose + aperture vocali stravaganti = pronuncia accurata al 38%) e lo fa come se si trattasse di vita o di morte, cioè come se quelle parole le avesse scritte proprio lui: «Faster than the speed of sound. Faster than we thought we’d go. Beneath the sound of hope». 

Enne lo vedo in preda a una trascendenza totale. Pare rinato, o forse fa i conti con una catarsi emotiva dirompente che mi intenerisce: sembra di nuovo il ragazzino del liceo, dà l’impressione di voler agguantare questa notte tanto attesa per non mollarla più. Man mano che i brani passano, però, mi sorprendo a essere nervosa, impaziente: quando arriva “Perfect”? E questa volta Enne non c’entra, sono io che voglio quella canzone, come se Corgan la dovesse cantare solo per me e non per più di diecimila persone. Non l’ho mai detto a Enne, perché sarebbe il mio momento test degli Smashing Pumpkins: è anche il pezzo che preferisco della band, ma non so il testo a memoria, anzi, non so proprio cosa voglia dire, nonostante le spiegazioni di Enne. E quando tiro fuori frasi a effetto del tipo «la canzone che tutti scelgono per ricordare “Adore”» è solo perché prima di questa serata mi sono letta un paio di articoli su Pitchfork – test superato, baby. Credo semplicemente che sia il brano con il titolo più bello che sia mai stato scelto. Punto. 

«Qui rischiamo che “Perfect” non la fanno».

Lo dice lui. 

«Sarebbe una vera tragedia» 

Rido. Però spero davvero di sentirla. 

Finisce che Enne e io seguiamo il flusso della folla in uscita e stiamo zitti per un po’. È stato un concerto bellissimo, hanno suonato magnificamente, hanno messo su una scaletta notevole confinata nel cerchio magico di “Gish”, “Siamese Dream”, “Pisces Iscariot”, “Mellon Collie”, “Adore” e “Machina”, hanno persino eseguito “Space Oddity” di David Bowie” e “Stairway To Heaven” dei Led Zeppelin. Hanno fatto tutto bene, insomma. Se non fosse per quell’unica, maledetta mancanza: “Perfect”. Lo so che Enne non vede l’ora di sfogarsi: serra e rilascia ritmicamente la mandibola come se stesse rimasticando un boccone grosso così di “te l’avevo detto”. 

Mi guarda. Lo guardo. «Hai un minuto per dire quello che devi».

Prende fiato e butta fuori tutto. Quel minuto durerà dieci minuti. 

Dio, quante paranoie.