La notizia di Pitchfork commissariato da Anna Wintour, che l’ha relegato al ruolo di appendice di GQ, pone qualche questione sul futuro del giornalismo musicale. L’aspetto interessante di una faccenda che, comunque la si valuti, resta drammatica (subito fuori l’editor in chief e si stima che metà redazione verrà tagliata), è che forse bisogna riflettere seriamente su come cambiare paradigma. Il paradosso del secolo di internet è che a fronte di una richiesta di contenuti giornalistici in costante crescita si è assistito a una progressiva riduzione degli investimenti.
La gratuità dei siti, però, non può reggere il passo imposto dalla velocità d’azione e di scrolling dei social. È vero, Pitchfork esiste ancora, ma è su una china pericolosa che ha già fatto alcune vittime eccellenti come Vice e BuzzFeed News. Inoltre, la gratuità pretesa dagli utenti ha creato un cortocircuito in cui non si distingue più il click baiting dal giornalismo musicale di qualità, nel nome di un autoconvincimento che diventa pregiudizio invincibile. La vicenda di Pitchfork – piaccia o no, non è questo il punto – dimostra che non bisogna dare nulla per scontato, nemmeno un magazine online che si pensava fosse il dominatore incontrastato.
Chi fa il mio mestiere si trova a un bivio perché l’impressione è che il ruolo della critica sia ormai superato dal corso degli eventi, dato che a dettare l’agenda sono ormai gli algoritmi. Questi sistemi hanno semplicemente moltiplicato a dismisura le etichette e le definizioni: basta andare su una qualsiasi piattaforma streaming, c’è una categoria per ogni traccia – altro che fine dei generi musicali – e il sistema ti invita ad ascoltare sempre di più di ciò che già conosci. Il punto però è che a volte le canzoni migliori sono quelle non su misura dei tuoi gusti. Ecco, il giornalismo musicale è questa cosa qui.
