Una mattina prenatalizia del 1991, nella terra nissena di mia madre, mi fu commissionato da mia madre l’acquisto di un paio di collant da sostiture a quelli che le si erano smagliati. Per tale impresa lei mi diede sulla manina 2.500 lire. Sotto casa di nonna, oltre a un carrozziere che impregnava pure l’ascensore di profumi smaltosi ma amabili, vi era anche una miccera (bottega) fornita di uno strano pane ai semi di papavero, detersivi con la faccia preoccupata di Calimero e prodotti di bellezza. Io avevo solo 8 anni ed essendo timida congenita come una coniglia non avevo abilità per acquistare neppure una manciata di caramelle.
50 denari
Entrai nella etil-odorosa miccera e chiesi genericamente dei collant. La signora al banco mi informò: «Ne abbiamo dai 10 fino a 50 denari…». Il mio cuore balzò su tutti gli scaffali bui e pieni in quei pochi metri quadri, pensai cose poco leggere: che mia madre non ebbe da mio padre a disposizione tutti quei soldi e che era compito mio dover occuparmi di quel problema. Pensai anche al fatto che in famiglia lavorava solo lui e per questo motivo spesso litigavano, perché lei lasciò il posto fisso in ferrovia in quanto restia ad indossare le divise. Pensai gravemente alle condizioni di una donna casalinga senza potere economico, alla mia terribile figura di figlia minore, con una sorella minore in arrivo e che questa sarebbe stata la quarta figlia troppo costosa. Tornai a casa a mani vuote, affranta, pallida più del solito.
La città argillosa
Entrai nella stanza d’infanzia della mia committente madre, una camera con le pareti vorticose di carta da parati floreale super anni 70 e bambole imbalsamate sopra l’armadio. Le annunciai il vero problema: che a Caltanissetta i collant erano troppo costosi, che chiedevamo troppi denari o come diavolo chiamavano i soldi in quella città argillosa e interrata. La radio trasmetteva La Poupee Qui Fait Non di Michel Polnareff e c’era un gran sole tiepido di dicembre. Quel giorno imparai che i denari sono anche l’unità di misura del filato del collant, imparai ad essere un po’ più donna e meno coniglia. Questo racconto lo condivido con il Blog alle porte delle festività natalizie perché vivo il periodo diventando infantile, piena di buffi ricordi. Mi penso e mi burlo come depressa cosmica un po’ come il poeta Leopardi, quando da bambino fece alla famiglia un augurio natalizio che credo possa essere condiviso con noi anche oggi: Iddio conceda a tutti loro nelle prossime feste quell’allegrezza che io difficilmente proverò.
Contenuto cattivello
Dedichiamo così a tutti i punk introversi (come piace definire a Manfredi gli shoegazer) il nuovo lavoro dei Sonic Jesus. Tornati quest’anno ancora più indipendenti, tanto da autoprodursi con l’etichetta Don Rhajin creata dallo stesso Tiziano Veronese, cofondatore del gruppo insieme a Marco Baldassari. Dalla nuova sede operativa di Sheffield, ci regalano Badway, ma attenzione: non è un giocattolo per bimbi buoni. Già la copertina fa immaginare quanto cattivello sia il contenuto e per cattivo intendo duro ed industrial post punk.
Un basso pazzo
Dunque i Sonic Jesus nel 2023 hanno buttato nello scantinato i buoni riverberi del psych-shoegaze per passare ad una batteria che picchia su tom e timpani mica per far festa, un pazzo basso votato alla distorsione perenne e chitarre darkwave che dopo un biennio pandemico vogliono fare tanto tanto rumore. All’ascolto queste 10 tracce fanno quasi paura, dei Blasfermors Rumors per citare i Depeche Mode, incalzanti e spietati come un sogno di Marilyn Manson, maligni come dei Birthday Party imbottigliati in feste alcoliste, tetri come cantastorie baskers dai mondi paralleli di Tim Burton. L’augurio più grande per questo 2024 è essere liberi di creare, sperimentare la bellezza, cambiare con gusto guardando al passato e amare l’arte e la composizione. La musica e le espressioni più ampie che teniamo dentro, a volte troppo nascoste. Siate pronti a tirarle fuori, noi saremo qui altrettanto prontissimi ad accoglierle.
