L’eterno presente a cui siamo ormai costretti da un calendario discografico sbilanciato sulle grandi novità e incurante di tutto il resto rischia di farci perdere di vista album che sono pensati per emozionare, non per sgomitare. Prenditi allora del tempo per dire basta all’all you can eat settimanale: Shoegaze Blog è qui per servirti, slow music against the machine. Questi dischi sono usciti nei mesi scorsi e meritavano di essere recuperati.
Little Oso, Happy songs
Il titolo richiama un po’ quell‘Happy songs for happy people che una ventina d’anni fa rese i Mogwai ancora più grandi di quanto già non fossero. Musicalmente però siamo su universi distanti: gli statunitensi Little Oso, da Portland, giocano con un pop che va in scivolata su arrangiamenti indie-dream-qualcosa, sempre ben orecchiabile, ben suonato e, soprattutto, coinvolgente, come dei Beach House col vento in poppa o dei Raveonettes ingentiliti, ma non troppo. E poi come non mettersi a ballare fino a domani con un brano esuberante che ha un titolo perfetto, I don’t want make new friends? Loro raccontano il disco così: «Questo album esprime il nostro bisogno, ora più che mai, di amici, famiglia, casa. Abbiamo perso amici e famigliari per Covid, casi di overdose e di suicidio. Volevamo creare una specie di riparo dalla tempesta con melodie orecchiabili e sognanti e testi giocosi». E allora giochiamo, con tanti saluti alle giornate storte.
Japan Review, The slow down
Il duo scozzese tira fuori un album di shoegaze casalingo e introspettivo, un’estetica sonora improntata su un minimalismo che funziona. David Chicane, forse il brano più interessante, ricorda vagamente i Radio Dept. migliori, quelli di Lesser matters, per via di una certa romantica indolenza che, solitamente, si abbina con le nostre nostalgie più segrete. Bel disco.
Fawns Of Love, Fear the softest gaze
La definizione più insolita del nuovo album dei californiani Fawns Of Love arriva da un loro sostenitore su Bandcamp: «È come se si stessero esibendo in un vasetto di miele». Secondo me è un miele d’acacia, che cade morbido dal cucchiaino e avvolge i sapori, senza sovrastarli. Il retro post punk del duo pare un incrocio tra i primi Cure e una certa new wave anni Ottanta, con in più un remix di Robin Guthrie e un featuring di Calvin Johnson dei Beat Happening.
Lo:Ve, I.M.
Alla casertana Carlotta Amore evidentemente piace complicarsi la vita, dunque è senza ombra di dubbio una di noi. Già il nome del suo progetto, Lo:Ve, ci dice molto in tal senso: non è qualcosa che trovi facilmente nei motori di ricerca interni delle piattaforme streaming (può aiutare il sito, loveofficialmusic.com). Su Apple Music, per dire, digitando “lo:ve” spunta di tutto, da Sufjan Stevens a Marra & Guè, tranne lei. Vale la pena però seguire la rotta segreta che ci indica la chitarra di Lo:Ve, che va dalle parti dei Sigur Rós strumentali, di un Jefre Cantu-Ledesma ancora più minimale, di un post rock a tratti persino ballabile che ci prende e ci porta via.
