Intervista: You, Nothing. Shoegaze vs. metal

I primi a parlare di questa piccola band veronese siamo stati noi di Shoegaze Blog. La canzone d’esordio degli You, Nothing (il cui nome viene dal titolo di un brano dei Be Forest), Waves, è stata la sorpresa shoegaze che in Italia mancava da un po’, ovvero un post punk leggero e veloce dalla grana finissima, in stile primi DIIV: in pratica un bel colpo. A distanza di qualche mese il quartetto ha pubblicato il disco Lonely // lovely, otto brani in cui la narrazione sonora degli You, Nothing diventa più stratificata e anche assordante.

I Be Forest guardano le nostre stories

I Be Forest vi hanno detto qualcosa?

(risate) Gioia Podestà (voce, chitarra): «Ancora niente. Ogni tanto mettono qualche like, guardano le stories, sono un po’ timidoni. Stiamo facendo loro un sacco di pubblicità».

Federico Costanzi (chitarra, tastiera): «Se ne accorgono in tanti che il nome viene da quella canzone. È strano, non ci aspettavamo che tutti capissero il collegamento. E invece, puntualmente…». 

Gioia: «Abbiamo scoperto che ci sono parecchi fan dei Be Forest. Tra l’altro, You, nothing è la canzone che preferiamo di Knocturne».

Vi paragonano ai gruppi della scena di Pesaro. Vi ci ritrovate?

Gioia: «Ne siamo felici, a quella scena appartengono band che ci piacciono un sacco, come appunto i Be Forest e i Soviet Soviet, però musicalmente non possiamo dire che seguiamo quell’onda. È bello leggere certe cose, ma parliamo di una scena di dieci anni fa. Adesso si spera che nasca qualcosa di nuovo, non bisogna guardare al passato».

E se una band volesse chiamarsi come un brano degli You, Nothing? Quale titolo suggerireste?

Federico: «Credo che esista una band che si chiama Gazers».

Giulia Cinquetti (basso): «Ma non hanno detto che si sono ispirati alla nostra canzone».

Reflectie non sarebbe male.

Gioia: «Anche Sonder potrebbe andare bene».

Esistono già gruppi che si chiamano così. Peraltro sonder è un neologismo tratto dal Dictionary of Obscure Sorrow il cui significato, in sostanza, è che chiunque ha un proprio vissuto, una storia.

Gioia: «Questa parola faceva parte di un elenco nostro con i nomi da dare alla band. Poi alla fine l’abbiamo tenuta per una canzone. Non c’entra tanto col testo, non facciamo molto caso ai titoli, ci piace di più il suono che ha un termine».

Ma la vostra storia qual è?

Gioia: «Federico aveva il computer strapieno di pezzi, con struttura già pronta, gli mancavano i testi e i componenti. Così ha messo un annuncio su una pagina Facebook».

Federico: «Era da due anni che cercavo di mettere su una band».

Ho dovuto aggiungere “alternative rock” e anche “elettronica”, sperando che rispondesse qualcuno

Ok, però se metti l’annuncio “Cercasi musicista per band shoegaze” non risponderà mai nessuno.

(risate) Federico: «Ho dovuto inserire “alternative rock” per rendere l’annuncio più appetibile. Ho scritto anche “musica elettronica”, ho pensato che qualcuno prima o poi avrebbe risposto».

Gioia: «Conoscevo Federico di vista, suonavamo in altre band, ma non immaginavo che volesse mettere su un progetto di questo tipo. Io e Giulia siamo amiche da qualche anno, la sera che gli abbiamo risposto eravamo a cena insieme. Infine si è aggiunto Nicola (Poiana), vecchia conoscenza anche lui: mi ha scritto sul profilo chiedendomi se stessimo cercando un batterista. E così nell’ottobre del 2019 abbiamo cominciato a suonare».

È interessante la sequenza di singoli che avete scelto per presentarvi: il primo, Waves, è più pop e orecchiabile, il secondo, Reflectie, più sognante e liquido, mentre Gazers è più ossessivo e distorto. Che tipo di discorso avete voluto impostare?

Gioia: «È un album molto vario. Noi veniamo da diverse esperienze e ascolti. Nicola alla batteria fa sentire la ritmica post punk: pesta di brutto. Io non ho la classica voce delle canzoni shoegaze. Sono stata abituata a spingere parecchio, un po’ perché non mi sono mai sentita…».

Non sentivi la tua voce?

Gioia: «Me l’hanno fatto notare durante le registrazioni: spingo tanto perché sono abituata a non sentirmi quando canto. Ho sempre fatto rock alternativo, stile Verdena. Cantavo in italiano, questa è la mia prima esperienza con testi in inglese. Giulia viene dal mondo della new wave anni Ottanta. Insomma, abbiamo mischiato tutto. Ci rendiamo conto che i pezzi sono molto diversi, la scelta dei singoli non è stata casuale. Volevamo capire quale di queste influenze potesse piacere di più, non perché vogliamo fare quello che vuole la gente, ma per una curiosità nostra. Oltre che per avere qualche indicazione su dove dobbiamo puntare per il prossimo disco».

La copertina del disco

Qual è il singolo che è piaciuto di più?

Gioia: «Il top è stato Reflectie». 

Confermo: è il migliore.

Gioia: «Non ce l’aspettavamo. Era la canzone più difficile del lotto, ritenevamo che la maggior parte delle persone apprezzasse di più Waves, che è più semplice, veloce, immediata, digeribile». 

Vivete di musica?

Gioia: «Magari. Lavoriamo tutti quanti, cerchiamo di ritagliarci del tempo per la band»

Federico: «Però è quello l’obiettivo».

Gioia: «Io sto per trasferirmi all’estero. Sono per metà belga, ho deciso di andare lì. Ma la band continua, non c’è problema. D’altronde siamo già testati per lavorare a distanza».

In che senso?

Gioia: «Pochi mesi dopo che ci siamo formati c’è stato il lockdown e tutto il disco l’abbiamo pensato a distanza: ognuno registrava al computer la propria parte, finché l’estate scorsa non ci siamo trovati in sala prove. Siamo rodati, insomma».

Avete mai fatto un concerto?

Gioia: «Abbiamo fatto solo due live da quando esistiamo, di cui uno senza spettatori, su Twitch, e un altro al Colorificio Kroen a Verona, con un centinaio di persone sedute e distanziate. Il fatto che il pubblico non potesse scatenarsi liberamente ha rischiato di far ammosciare canzoni come Gazers. Noi comunque eravamo nel nostro mondo, neanche ci abbiamo fatto caso».

Come immaginate il vostro primo vero live, allora?

Giulia: «Vorrei suonare all’aperto, dato che andiamo incontro all’estate e c’è ottimismo per suonare. Ho questa immagine: sole, estate, spazi aperti con tanta gente che vuole ascoltare musica e volumi alti, assordanti. E ovviamente pedali e riverberi ovunque».

La canzone Problems piace solo a Giulia

Una canzone, Problems, fa così: «I hate when people touch me. And I don’t feel the need of everyone around me». Altro che «torneremo ad abbracciarci»: praticamente avete scritto l’anti inno di questo anno e mezzo di pandemia. Ci avete fatto caso?

Gioia: «In realtà la canzone era nata molto prima della pandemia. È venuta fuori un po’ la mia parte punk. Peraltro è una di quelle canzoni che ci stiamo chiedendo se proporre live o no. Nicola e Federico non sono d’accordo».

Federico: «Probabilmente la scarteremo».

Gioia: «È la preferita di Giulia».

Solo di Giulia.

Giulia: «Esatto».

Siete uno dei pochi gruppi che dice che una canzone appena pubblicata va scartata, complimenti per la sincerità.

(risate) Federico: «I pezzi per noi sono già abbastanza vecchi, è da più di un anno che li abbiamo in testa».

Com’è il Veneto, musicalmente parlando?

Federico: «Ci siamo ritrovati da soli a fare questo tipo di musica».

Giulia: «Qui va il metal in tutte le sfumature. A Verona c’è stato il boom del metalcore, fatto da gente che poi si è messa a fare musica italiana indie». 

Dimmi un nome.

Giulia: «No, dai».

Non volete nemici.

Giulia: «Quando cercavamo un batterista e non ci rispondeva nessuno per il genere shoegaze, abbiamo provato a mettere pure “heavy metal”». 

Gioia: «Poi c’è la questione delle cover band. A Verona ci sono tre posti dove si fa musica inedita, tutti gli altri sono baracci dove prendono le cover band per intrattenere la gente».

Federico: «Locali che non si degnano neanche di attrezzarsi a dovere».

Che programmi avete adesso?

Gioia: «Il prossimo passaggio è fare dei live. C’è ancora tanta incertezza, ma noi non ci fermiamo. E nel frattempo stiamo scrivendo il prossimo disco, siamo già a metà. Vogliamo un sound più personale e vogliamo inserire qualche canzone in più. Siamo stati un po’ criticati per aver fatto un disco di otto pezzi per 24 minuti».

Federico: «Dicono che è troppo breve».

Chi lo dice?

Gioia: «Ci sono recensioni in cui si dice che sarebbe stato meglio fare un lavoro con qualche minuto in più, ma la nostra idea è che otto tracce sono sufficienti per un album, anche se dura poco».

Da anni porto avanti una battaglia per ridare dignità al formato ep.

Gioia: «Oggi è già difficile far ascoltare un disco di 24 minuti, le persone vogliono tutto e subito».

Giulia: «L’ascolto è sempre più distratto».

Gioia: «In ogni caso due pezzi in più li metteremo».

Non si sa mai.