Mono, Dublino. Luce, ombra e tutto ciò che sta in mezzo

Foto di Ilaria Sponda

Dublino, 15 luglio 2019. Ogni volta che si tratta di andare a un concerto in solitaria una parte di me si tira indietro, quella che tende a non aspettarsi più nulla dal caso. Alla fine però l’intraprendenza ha la meglio e così mi ritrovo a camminare per strada, per arrivare al Whelan’s pub, dove stasera si esibirà una band che volevo vedere da tempo. Nel mentre mi guardo attorno, calamitando sguardi interessati e interessanti dai quali mi devo ripromettere di stare a distanza, a causa di un karma cristallizzato che mi porta a intessere legami talmente forti da rompersi subito per la troppa tensione. Il passato incombe su ogni attimo presente, lo determina, ne traccia la traiettoria futura. Così nella luce si può sempre vedere l’oscurità e viceversa. I giapponesi Mono esprimono a pieno questo concetto nella loro torre di pietra nera, con un’aura potente, mai invadente, pronta a insinuarsi sottilmente nella mente e nei corpi di chi ascolta.

Il momento della liberazione

Luce e ombra, due elementi in contrasto e in correlazione: questo il concept di Nowhere now here, il decimo album pubblicato a gennaio per il ventesimo anniversario della band. La vita nei suoi aspetti più quieti e più caotici, post rock e shoegaze in cui subentrano due novità: un’anima elettronica e una voce, quella di Tamaki, che fa il suo debutto in Breathe. La musica deve trascendere i generi per avere significato, per comunicare l’incomunicabile coesistenza degli opposti. After You Comes the Flood è l’emblema e la chiave di volta di questa poetica della dualità. Un’introduzione sospesa, con un sottofondo ritmato sempre uguale che irrompe violentemente quando meno te lo aspetti: il momento della liberazione arriva sempre senza preavviso, non importa quanto si conosca il pezzo in questioneDeath in Rebirth è invece il capolavoro tratto dall’album Requiem for Hell (2016): un’ossessione che inebria la mente tormentata. 

Mono
Foto di Ilaria Sponda

Il caos è tutto intorno

Sorrow porta la narrazione a un più alto livello di malinconia e intensità. Si è sul punto di piangere ma anche di sorridere. Mi chiedo se qualcuno abbia mai provato una sensazione del genere: nel caso, sarebbe interessante scoprire come ne è venuto fuori. Segue Meet us where the night ends e non so come sentirmi. Sono confusa, gli strumenti suonano come se fossero delle voci, tutto sembra rallentato, in uno spazio altro tra questa dimensione e chissà quale altra. Verso la fine del viaggio si prende velocità, ma è come essere nell’occhio del ciclone: il caos è tutto intorno, non dentro di me. C’è la consapevolezza di una band che sa essere contemporanea e classica in modo perfetto, intensa e in grado di focalizzare diverse traiettorie artistiche. Per spessore e personalità, ricerca e sperimentazione, meritano di essere visti almeno una volta nella vita.