American Football, “LP3”. Ancora al nostro fianco, qualunque cosa accada

LP3 (2019)

Ieri ho incontrato un me stesso diverso: ho notato sguardi simili e sfumature differenti, come se fosse una figura non molto a fuoco, presa da una vecchia fotografia di vent’anni prima, scontornata alla meno peggio con un paio di forbici, infine incollata sopra a uno sfondo totalmente altro. Il contrasto è evidente, ma lo è meno il concetto di base: chi è che sbaglia, il soggetto o il contesto?

Lui, cioè io

Vedo me stesso, insomma, esattamente come ero nel ’99: con un vissuto ancora acerbo, con un arroganza che non ho mai più ritrovato e con zero dubbi davanti a me, come succede sempre a chi vive i giorni delle scoperte e non ha ancora conosciuto quelli delle scelte. Gli occhi, innanzitutto: sembrano uguali, sono diversi, più profondi, più attenti, forse anche più leggeri in un certo senso. Gli occhiali con le lenti ovali tengono a bada una miopia che sin dal ’99 – o forse anche prima – rosicchia a poco a poco i contorni del mondo, centimetro dopo centimetro. Lui – cioè io – mi guarda in modo strano e non sono sicuro che sia felice di ciò che sta osservando. Chi starà vedendo? Il tipo di uomo che non vorrà mai essere? Il risultato di mille compromessi, forse alcuni nemmeno andati a buon fine? E i capelli, diosanto, che cosa penserà dei capelli che uno dopo l’altro stanno mollando gli ormeggi proprio quando c’è più bisogno di loro? Lui – cioè io – invece mi guarda come se si stesse chiedendo se lo incolpo per tutto ciò che non è andato per il verso giusto, se certe decisioni andavano prese prima che fosse troppo tardi, ovvero prima che il mondo diventasse troppo difficile e duro e complicato per poter cambiare davvero. È uno stallo, insomma.

Uno scambio

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LP1 (1999)

Così lui – cioè io – mi allunga un disco che ama alla follia e che è riuscito ad avere su un Verbatim masterizzato con il titolo scritto a penna. C’è un problema: non ho più un lettore cd in casa e quindi guardo questo dischetto un po’ rigato senza sapere che cosa farne. Ma tanto so di che cosa si tratta. Loro si chiamano American Football, proprio come l’album, e amano raccontare la timidezza al livello base: “I’m thinking about leaving and how I should say goodbye: with a handshake or an embrace or a kiss on the cheek. Possibly all three” canta Mike Kinsella in The summer ends. Andare via e non sapere come dire addio: perfetto.

Io – cioè lui – seleziono dal mio telefono una band che amo molto: si chiamano American Football, proprio come l’album, e raccontano il cammino verso la maturità sottolineando ogni inciampo, ogni caduta, ogni graffio. “I used to struggle in my youth, now I’m used to struggling for two, I have become uncomfortably numb”, canta Mike Kinsella in Uncomfortably numb. La battaglia combattuta da adolescente non lascia e anzi raddoppia, fino a renderti spiacevolmente insensibile: perfetto.

Testacoda

Io e lui – cioè lui e io – siamo in questo testacoda che coinvolge decenni, secoli e millenni diversi e, in qualche modo, troviamo il punto d’incontro con la musica vecchia e nuova – con le parole vecchie e nuove – degli American Football. Che oggi come allora sono al nostro fianco, qualunque cosa succeda. Due dischi diversi, stesso titolo, stesse emozioni. Se mi chiedi che musica fanno non saprei risponderti: post rock, indie rock, dream pop, math qualcosa, cantautorato. Scegli tu. Una cosa però la so: gli American Football parlano per noi. E dicono tutto.