Smashing Pumpkins, Bologna. Quelle braci che non si spegneranno mai

(foto: Linda Strawberry - Facebook)

Well, I’ve been afraid of changing

Ricordo ancora tutto della sera di vent’anni fa in cui andai a Roma a vedere per la prima volta con i miei amici gli Smashing Pumpkins: il treno, i volti, i contrattempi, l’emozione, i ritornelli, i salti, i volumi, la scaletta, i sorrisi. Quella notte di giugno del 1998 avevo sorseggiato un po’ di adolescenza e ne ero rimasto euforico, come un piccolo re finalmente consapevole e irresistibile, giovane per sempre e bello per davvero, senza quel senso di inadeguatezza che mi portavo appresso praticamente sempre, qualsiasi cosa facessi – nei giorni normali e nei weekend brevi, nelle settimane tristi e nei mesi freddi, nelle poesie sterili e nei libri sbagliati.

You can never ever leave, without leaving a peace of youth

Riguardo ancora una volta quella foto di vent’anni fa, quel me stesso ragazzino e fragilissimo, fisicamente ristretto a un cumulo rinsecchito di molta pelle, qualche osso, pochi muscoli: all’epoca mettevo sempre delle magliette nere enormi – solitamente Hard Rock Cafe, qualche volta Planet Hollywood – e diomio le spalle sembravano quelle di una gruccia in fil di ferro. Il tempo nel tempo ha agito con uno strano senso dell’umorismo, ovvero mostrando sul mio volto nuovi difetti che hanno preso il posto di quelli vecchi. Vent’anni fa l’acne andava e veniva ma non mollava mai del tutto la presa: oggi non ci sono più segni visibili sul volto, in compenso le occhiaie stanno assediando il mio sguardo e i capelli ogni giorno diventano sempre meno forti, meno folti, meno presenti. Difficilmente mi prenderanno come testimonial Pantene, a questo punto.

I used to be a little boy so old in my shoes

All’Unipol Arena di Bologna va in scena una celebrazione di tutta l’iconografia degli Smashing Pumpkins, con le copertine degli album che prendono vita e si fondono sul maxi schermo al centro del palco, mentre si sentono in sottofondo le note di Mellon Collie and the infinite sadness. La scaletta va da Gish a Machina. Gli altri dischi non esistono: non sono mai esistiti per tutti noi che siamo oggi qui a vedere di nuovo i Pumpkins, non sono mai esistiti per James Iha, non esistono più per Jimmy Chamberlin e chissà, magari non esistono neanche per il buon Jeff Schroeder, uno che da undici anni è nella band ed evidentemente deve essere bravo davvero per essere sopravvissuto a tutte le purghe corganiane. Soprattutto, non esiste D’arcy, cancellata scientificamente da ogni clip, da ogni spezzone, da ogni riferimento: nessuno ricorda più le polemiche avvelenate e nessuno sembra far caso al fatto che la storica bassista è stata sostituita dal figlio di Peter Hook. L’unica cosa che sembra contare davvero stasera è che esiste Billy Corgan. La star è lui e le pacchianate coreografiche che ne rappresentano plasticamente il culto della personalità sono soltanto un contorno divertente e nulla più. Perché quando si presenta da solo al pubblico per suonare Disarm diventa evidente a tutti che quest’uomo è un sopravvissuto, come lo sono Eddie Vedder, Courtney Love e Mark Lanegan: i testimoni di una generazione intera di cantanti che è stata spazzata via dall’eroina e dalla solitudine. Le immagini che scorrono alle spalle del leader dei Pumpkins – il piccolo Corgan che sorride, il piccolo Corgan che balla, il piccolo Corgan con ancora tutta la vita davanti e l’inconsapevolezza di ciò che succederà – sembrano dire soltanto una cosa: guardate che è tutto vero.

Have you ever heard the words I’m singing in these songs?

“Ciao Bologna, questa è l’ultima data del nostro tour”, dice James, vestito come nel video di The everlasting gaze. Detta in altri termini: è l’ultima occasione per ascoltare un’esibizione così lunga – circa tre ore – incentrata sui nostri ricordi e sulla nostra adolescenza, perché i futuri concerti avranno probabilmente altre canzoni. Stasera invece tutti i brani sono quelli giusti e – a parte un paio di eccezioni (Landslide, To Sheila, bellissima) – sono fedelissimi agli arrangiamenti originali: non era praticamente mai successo prima. È insomma l’ultima volta che si ascolterà una scaletta così: i quattordicimila dell’Unipol Arena lo sanno e scandiscono le canzoni in un inglese a volte inventato ma sempre efficace, tanto nessuno se ne accorgerà. Corgan canta meglio di vent’anni fa: ha smesso di urlare – un vizio che dal vivo gli sfarinava la voce dopo pochi pezzi – e ne guadagna in tenuta e intonazione, tocca perfettamente ogni nota e fila liscio per una trentina di canzoni. Non che gli manchi la ferocia: in Zero è un satanasso alla guida del caos, in Bullet with butterfly wings è un esteta del grunge e della disperazione. Insomma, picchia duro e con soddisfazione. Però che delizia sentire trasparente e cristallino lo struggimento di Stand inside your love, che emozione ascoltare senza trucchi né cambiamenti The beginning is the end is the beginning, che bellezza il ritornello di 1979 che vola altissimo mentre sul maxischermo il giovane Corgan del videoclip originale viene scorrazzato in auto dal Corgan contemporaneo: che cosa vuoi dirci, Billy? Che cosa resta di quelle strade che abbiamo attraversato, di quella giovinezza che abbiamo maledetto, di quei giorni che abbiamo rimpianto senza forse averli vissuti fino in fondo?

As you can see there’s no one around

Davanti a me una coppia di scalmanati si dimena, salta e poga come se fossimo a un evento per ventenni: sono loro che esagerano o sono io che ho perso smalto? Dopo Hummer butto un occhio a Setlist.fm e vedo che qualcuno sta aggiornando in tempo reale la scaletta: chi è il pazzo, io che controllo o lui – lei – che scrive i titoli uno dopo l’altro? Accanto a me e intorno a me ci sono volti amici e facce gentili, tutti hanno i miei stessi occhi spalancati: la meraviglia e la consapevolezza di stare partecipando al concerto più significativo della nostra vita, quello che racconta per l’ultima volta chi siamo stati. Quello che racconta un’ultima volta chi siamo diventati.