My Bloody Valentine vs. Slowdive vs. Ride: il sondaggio definitivo!

In questi vent’anni trascorsi nell’attesa del ritorno dei Re, la religione dello shoegazing non ha vissuto momenti facili. Mancanza di prospettive e carenza di eredi credibili – almeno inizialmente – hanno spinto i fan superstiti di quella scena a optare per lo scissionismo, prediligendo di fatto all’uno – lo shoegaze tutto – il trino: My Bloody Valentine, Slowdive, Ride. Sono tre nomi che hanno ridefinito il rumore dolce e ne hanno indicato tre diverse sfumature, tutte ugualmente valide e tutte assolutamente irrinunciabili per comprendere appieno la portata reale di un genere ritenuto morto e che invece ha saputo dare degna sepoltura a tutti i diretti concorrenti. Ogni appassionato di shoegaze e dream pop sa che quei tre lì sono i cardini dell’intero sistema, ma ogni appassionato ha il suo preferito: questo porta sempre a discussioni infinite e, spesso, molto divertenti. Ebbene, è arrivato il momento di dire una volta per tutte qual è la migliore più amata band shoegaze tra Ride, My Bloody Valentine e Slowdive. Per stabilirlo, Shoegaze Blog lancia il sondaggio definitivo.

Per entrare ancora di più nel clima, ho chiesto a tre musicisti italiani shoegaze di schierarsi: le loro testimonianze spiegano perfettamente perché, dopo tanti anni, queste tre band continuano a essere così importanti per così tante persone. Leggete, ascoltate, votate, fate votare, discutete. Buon divertimento! (PS: lo so, la penso anch’io così, ma è un gioco, quindi la risposta “Mi piacciono tutti e tre” non è contemplata).

#TeamSlowdive: Daniele Carretti (Felpa, Offlaga Disco Pax)

La copertina di
E pensare che all’epoca furono stroncati

“Ricordo che a un certo punto ho iniziato a dare più peso alle atmosfere che la musica creava, lasciando in secondo piano melodie, armonie e testi. Credo perché in inverno mi soffermavo per pomeriggi interi a guardare fuori dalla finestra di casa mia, in campagna e in mezzo alla nebbia, immaginando una colonna sonora ideale per quei paesaggi. Anni dopo Enrico mi ha segnalato un disco, aveva per titolo il nome di un piatto greco. Mi disse: “Ascoltalo, secondo me è quello che dovresti fare con il tuo gruppo (Magpie)”. Poi ricordo solo che è partita Alison e non ho capito più niente ed era proprio quello che cercavo, che avrei sempre voluto fare e ascoltare. A quei tempi reperire i dischi degli Slowdive era difficilissimo, nessuno li ristampava, i gruppi shoegaze o si erano sciolti e avevano cambiato totalmente genere o si erano reinventati con il britpop che a inizi anni Novanta forniva più spazi e riscontro. Era stato complicato, ma alla fine li avevo trovati i tre gli album e anche alcuni ep e in tutti avevo trovato quel qualcosa che non c’era in nessun altro gruppo, ero sopraffatto da quel muro di suono fluido, carico di reverberi e incredibilmente rilassante. Souvlaki rimane ancora oggi, dopo tanti anni, l’album più bello che abbia mai ascoltato e ogni volta è come se fosse la prima volta – le atmosfere rarefatte, le melodie trascinate e le voci quasi incomprensibili. Souvlaki era ed è per me una di quelle cose incredibili cui non riesci a dare una spiegazione, ma che sono lì: senza di loro tutto sarebbe diverso. In questi anni c’è stato un revival shoegaze di cloni più o meno credibili che dal basso e con non poca fatica ha ridato importanza a questi gruppi che all’epoca erano quasi derisi per le “lagne” proposte. Quando ho visto finalmente gli Slowdive dal vivo nel 2014 è stata la conferma di tutto quello che avevo ascoltato nei dischi: una perfezione di suono incredibile e una bellezza difficile da descrivere”.

#TeamRide: Dario Torre (Stella Diana)

Ride
Poi quell’onda arriva

“E’ semplice dire qualcosa sui Ride senza metter sul tavolo le solite cose: band fondamentale, sound seminale e via dicendo. I Ride, insieme con altri gruppi, sono il prototipo perfetto di band inglese figlia diretta dei Beatles e possiamo fermarci qui. Andy Bell e soci prendono il sound anni Sessanta, le melodie irresistibili, gli intrecci di voci, la psichedelia e il jingle jangle rickenbackeriano dei Birds,  rileggendolo con lo stile e l’attitudine degli anni Novanta. I quattro di Oxford hanno purtroppo raccolto all’epoca meno di quanto meritassero. Ora, per fortuna, con Weather diaries si stanno riprendendo il maltolto con un tour sold out e un disco che brilla di echi antichi e classe assoluta (anche se necessita di numerosi ascolti). Ho capito cosa volevo farne degli Stella Diana solo dopo che il nostro primo produttore/batterista mise in studio a volume dieci Dreams burn down, dicendo che avremmo dovuto lavorare sui nostri suoni riferendoci a quel tipo di sound. L’attacco selvaggio di quella batteria immersa in un mare di riverbero e il fragore noise delle chitarre di Andy Bell e Mark Gardener mi sconvolsero. I Ride per me sono il connubio perfetto tra rumorismo e pop di classe: perchè per creare una melodia che ti rimane incollata nella testa ci vuole genio e se provate a spogliare Nowhere o Going blank again dai delay e overdive vi restano canzoni pop perfette. A questo punto dovrei/potrei indicare da quale disco partire per approciarsi ai Ride, ma li ho già nominati. Fate così, partite da Nowhere e Going blank again e poi salvate qualcosa da Carnival of light (Natural grace per esempio) omettendo Tarantula, l’ultimo disco prima della ventennale pausa, fino ad arrivare a Weather diaries, perla grezza, ma nobile”.

#TeamMyBloodyValentine: Aldo Bernuzzi (In Her Eye)

My Bloody Valentine
Suoni da un’altra dimensione

“Chi scegliere tra My Bloody Valentine, Ride o Slowdive? Se ami un certo tipo di sonorità, è una domanda cui è quasi impossibile rispondere senza sentirsi in colpa. Però… Sembra quasi che Shoegaze Blog ci abbia letto nel pensiero. E se non altro per motivi sentimentali, dobbiamo dire My Bloody Valentine. Mi ricordo la prima volta che li ho ascoltati. Era estate, di notte, dormivo in tenda. Un amico mi aveva passato uno dei loro dischi: “Guarda che sono molto fighi, ascoltali“. Beh, proviamo. Ho infilato gli auricolari: non credevo a quello che stavo ascoltando, non avevo mai sentito nulla di simile prima. Un suono stranissimo, particolare, unico. In alcuni momenti mi sembrava di provare una sensazione assurda, come quando ascoltavi un nastro nel walkman e le pile si stavano scaricando. Ma ciò che stava girando era un compact disc, non una cassetta. In altri momenti, non riuscivo a capire se ero in dormiveglia oppure no. Quelle chitarre stratificate, quelle voci ipnotiche, quelle tastiere oblique. Quelle atmosfere dilatate e ultraterrene. C’era una patina vintage che ricopriva tutto, eppure tutto suonava così nuovo. Maledettamente affascinante. L’album che stavo ascoltando era Loveless, ma a dispetto del titolo per me fu subito amore”.